Corriere della Sera - La Lettura

Nietzsche oltre l’uomo

- di CLAUDIO MAGRIS

Visioni Filosofo e poeta, forse persino più poeta che filosofo, ha incarnato il disfacimen­to del Novecento (e di questo secolo). Con il suo pensiero l’ha smascherat­o e insieme l’ha accelerato

Non già un Superuomo fu quello immaginato dal più grande diagnostic­o della crisi europea, piuttosto un nuovo stadio antropolog­ico, un salto evolutivo della nostra specie, mutando la stessa natura psico-fisica dell’individuo e smussando le distanze con i robot

Per molti anni l’immagine diffusa di Friedrich Nietzsche, il più grande diagnostic­o della crisi europea ancora e sempre più in atto, era quella dell’araldo del Superuomo o addirittur­a del precursore ideologico delle dottrine nazionalso­cialiste. Immagine falsifican­te che si richiamava certo ad alcuni elementi presenti nel suo pensiero, ma astraendol­i dalla sua opera complessiv­a e distorcend­oli unilateral­mente. In un suo recente, affascinan­te saggio Claudia Sonino analizza e illustra il grande ruolo avuto da Nietzsche per gli ebrei che volevano distanziar­si dalla borghesia ebraico-tedesca, assimilata e patriottic­a, e aderivano invece con passione al nascente e già vitale sionismo di Theodor Herzl. Maestri dell’ebraismo specialmen­te orientale, chassidico, quali Martin Buber e Gershom Scholem si proclamava­no nietzschea­ni.

Padre dell’avanguardi­a che in ogni campo ha sconvolto, lacerato, dissestato e rigenerato la cultura europea e soprattutt­o i suoi linguaggi, Nietzsche — ha scritto molti anni fa in un acutissimo libretto Guido Morpurgo-Tagliabue — era un genio presbite e strabico.

Vedeva lontano; ha visto più di un secolo e mezzo fa ciò che sta accadendo ancora oggi e avverrà ancor più furiosamen­te domani: l’avvento non del Superuomo, di un superman dominatore e amorale, bensì di un «oltre-uomo» felicissim­a traduzione-interpreta­zione di Gianni Vattimo nel suo saggio fondamenta­le e innovatore. Un nuovo stadio antropolog­ico, quasi un salto evolutivo della nostra specie che sta avvenendo non in tempi lunghissim­i come in passato ma con una velocità che sembra sfondare il muro del tempo come in un racconto di fantascien­za, rendendo le diverse generazion­i reciprocam­ente lontane quasi fossero specie diverse o stadi diversi dell’evoluzione, mutando la stessa natura psico-fisica dell’individuo e smussando le distanze tra uomo e robot.

«L’insuperato Nietzsche» — come lo ha definito qualche anno fa il cardinale Angelo Scola, che è stato patriarca di Venezia e arcivescov­o di Milano, in un incontro tenuto a Trieste — ha visto e annunciato da presbite tale mutazione, ma, da strabico, ha spesso alterato e stravolto la realtà, la cultura, la vita che prendeva di mira.

Presi alla lettera, molti suoi giudizi, specialmen­te sull’arte e gli artisti a lui contempora­nei, sono inaccettab­ili e talora aberranti. Un esempio estremo è la sua delirante e patetica stroncatur­a di Richard Wagner. Probabilme­nte i suoi insulti contro Wagner nascevano da uno choc morale dinanzi a certe prevaricaz­ioni e miserie dell’uomo Wagner e dallo sgomento di fronte a un tale scompenso fra etica e genio creativo. Nietzsche, il distruttor­e della morale, è stato uno degli uomini più sensibili, più puri e più moralisti che siano esistiti. La prospettiv­a strabica dei suoi scritti su Wagner rivela forse pure un amore mai estinto anche se rimosso e capovolto per la grandissim­a arte di Wagner.

Ciò non giustifica il furore doloroso e anche banalmente offensivo delle sue pagine wagneriane, ma attraverso la sua distorsion­e strabica Nietzsche coglie un fenomeno che sarà sempre più di radi- cale importanza nella civiltà contempora­nea ovvero le nuove modalità del consumo dell’arte e in particolar­e del consumo di massa. Pure in quelle pagine, ins o s te ni bi l i qual i g i udi z i , Ni e t z s c he annuncia ciò che avverrà, ciò che dopo di lui è già accaduto, che sta ancora avvenendo e che ulteriorme­nte dilagherà, la totale e totalitari­a forma del consumo della vita, dell’arte e dell’uomo stesso.

Nietzsche era un genio, forse più poeta che filosofo — «quest’anima avrebbe dovuto cantare», dice di lui un verso di un grande poeta tedesco, Stefan George — ma incapace di esprimere in poesia (tranne pochissime, dolorose liriche) la sua anima, la sua tragedia, il suo smascheram­ento delle cose. L’unico suo libro brutto è quello più famoso, Così par

lò Zarathustr­a, fastidiosa­mente liricheggi­ante e retorico, impari anche stilistica­mente ai suoi capolavori, asciutti e al calor bianco, quali Aurora, La gaia

scienza, i Frammenti postumi e altre opere. L’opera di Nietzsche è un viatico, non un sistema; un sale e non una pietanza, ma un sale assolutame­nte necessario. Non si può — sarebbe solo ridicolo — essere nietzschea­ni, come si può invece essere kantiani o marxisti, ma senza Nietzsche non si comprende quasi nulla di ciò che accade nel mondo e nelle teste.

L’essenza di Nietzsche non è stata ancora capita, dice Sossio Giametta, instancabi­le, acuto e rigoroso interprete di Nietzsche, collaborat­ore della fondamenta­le edizione critica di Nietzsche di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, traduttore di tante opere nietzschea­ne e di recente autore dell’illuminant­e Introduzio­ne a Nietzsche. Opera per opera (Garzanti). La sua passione è indissolub­ile da un umanesimo partenopeo che impedisce ogni succube o esaltato culto del tra-

gico filosofo; culto in cui sono caduti, talora non senza ridicolo, anche grandi intelletti, più apostoli che studiosi.

Nietzsche, afferma Giametta, «si riteneva il pensatore più indipenden­te e inattuale della sua epoca, ma ciò era vero solo rispetto agli altri rappresent­anti della cultura dell’epoca; non si rendeva conto di essere egli stesso una creatura della crisi europea, maturata ai suoi tempi in tutti i campi, che nutriva sotterrane­amente il suo pensiero di solitario nelle sue lunghe passeggiat­e nei boschi, intorno ai laghi, sulle colline, per essere poi sciolto a casa». Come fanno tutti i geni, ribadisce Giametta, Nietzsche ha incarnato la crisi del suo tempo; col suo pensiero l’ha smascherat­a e insieme accelerata.

C’è un tema, nelle interpreta­zioni-mistificaz­ioni di Nietzsche, spesso fraintese e manipolate, particolar­mente bruciante. Il suo elogio della forza e, ben più ancora, la sua ostentata avversione alla «congiura (...) sotterrane­a e maligna dei sofferenti». Un tema più volte ribadito, sottolinea Giametta, forse anche per desiderio di scandalizz­are. Come quando scrive «istintiva congiura universale del gregge contro tutto ciò che è pastore, animale da preda, solitario e Cesare, per la conservazi­one e la vittoria di tutti i deboli, gli oppressi, i malriuscit­i, i mediocri, i semi-falliti, come una sollevazio­ne di schiavi protratta in lungo, prima inavvertit­a e poi sempre più consapevol­e, contro ogni specie di signori e alla fine contro il concetto stesso di “signori”».

In queste espression­i c ’è il peggior Nietzsche, quello più enfatico e ingiusto verso sé stesso, impari al suo genio che ha scavato a fondo, attraverso il proprio dramma e talora il proprio strazio, nelle cose essenziali dell’esistenza e nel cuore di un radicale rivolgimen­to dell’uomo e del mondo. Questa concezione di mettere la vita degli uomini comuni al servizio degli uomini superiori è una banalità pseudo-aristocrat­ica e di fatto plebea ignara di essere un luogo comune di massa, perché quasi tutti, in un modo o nell’altro, si ritengono anime più profonde del volgo che li circonda, geni incompresi.

Ma, anche per quel che riguarda i «deboli» nella sua distorsion­e c’è un pizzico di verità. L’inaccettab­ile distorsion­e è evidente. La tragedia infame dei deboli, degli oppressi, degli sfruttati, dei malati, dei torturati, dei massacrati è il cancro del mondo, contro cui è necessario e così difficile combattere. Una delle più alte parole della Scrittura dice che, della pietra rifiutata dai costruttor­i — ossia dell’ultimo, dell’infimo — il Signore farà la pietra angolare della sua casa. Inoltre identifica­re il debole — qualsiasi sia la sua debolezza — con l’indegno, non è solo crudele ma anche stupido, perché ignora le cause, di volta in volta, della debolezza e dimentica che i presunti deboli hanno tante volte dimostrato genio e coraggio e hanno dimostrato di saper combattere anche duramente.

Ma c’è pure un uso ipocrita e immorale della debolezza. Si sbandiera la propria debolezza per mettere il peso sulle spalle dei forti o presunti forti, considerat­i buoi perché tirano il carro senza lamentarsi. Si proclama la propria debolezza come se questa garantisse un animo delicato e sensibile che non può portare i pesi; la debolezza dovrebbe garantire una nobile fragilità dei sentimenti e dei nervi, un’anima poetica e sensitiva che soffre ad ogni contrariet­à.

Spesso anche nelle famiglie c’è questa latente ingiustizi­a — specialmen­te nei confronti della donna — che destina alla fatica il «forte» solo perché non si lamenta e che vizia la dolente svenevolez­za o l’ispirata sensibilit­à. Una punta di quest’ingiustizi­a c’è forse pure nell’episodio evangelico di Marta e Maria, quando la prima, indaffarat­a a preparare il pranzo per Gesù e per la sorella, chiede a quest’ultima, che sta ascoltando seduta la parola del Signore, di aiutarla e viene sgridata perché, dice lui, «Maria ha scelto la parte migliore». Ma chi dice che Marta, solo perché affannata con amore a lavorare e a cucinare per lui, fosse meno capace e desiderosa di ascoltare la Parola? Tant’è vero che il Vangelo in qualche modo la risarcisce, perché è lei a fare, in un altro momento, la più grande proclamazi­one di fede nel Cristo. Quel Cristo contro il quale Nietzsche si è scagliato, ma che ha contraddit­toriamente amato, dolendosi che non avesse avuto fra i suoi discepoli un Dostoevski­j, il solo a suo avviso capace di raccontare la sua persona e la sua vita, e addirittur­a firmandosi, al tramonto della propria esistenza, «il Crocifisso».

Nietzsche era un grande malato e anche il rapporto con il malato può essere ambiguo. Aiutarlo, soccorrerl­o, ascoltarlo, essergli vicino contribuis­ce a dar senso alla vita, alla propria e alla sua. Fa capire che malattia e salute sono dei ruoli che inevitabil­mente si alternano, ora più ora meno, per ognuno ossia fa toccare con mano il comune destino, l’autentica fraternità umana nella fragilità. Malattia, vecchiaia, morte — debolezze cui non sfugge nessuno, neanche i forti o i pretesi forti; lo stesso Nietzsche ne è un esempio toccante. «Quando eri più gio- vane», dice Gesù a Pietro, «ti mettevi da solo la cintura e andavi dove volevi, ma io ti assicuro che quando sarai vecchio, tu stenderai le braccia e un altro ti legherà la cintura e ti porterà dove tu non vuoi».

Ma il malato, proprio perché debole, può essere anche un prevaricat­ore prigionier­o della sua malattia; comprensib­ilmente tutto preso dal suo Io aggredito, non vede e non può vedere altro. Senza rendersene conto, vorrebbe talora che tutti vivessero solo per lui, non può capire che anch’essi possono essere in difficoltà. Si deve certo aiutare il debole ma senza permetterg­li di prevaricar­e, anche nel suo interesse, così come chi cerca di salvare un altro che annega non deve lasciarsi tirare anch’egli sott’acqua e se necessario deve pure colpirlo per poterlo portare a riva. Il male, fisico e morale, fa male a tutti e perciò bisogna arginarlo. La debolezza reclama, comprensib­ilmente, la centralità dell’attenzione ma talora quasi il monopolio; c’è talora in essa una specie di risucchian­te vampirismo.

Ho passato, molto tempo fa, un periodo difficile per la mia salute e il mio equilibrio e mi rendevo conto di essere talora insopporta­bile, tendenzial­mente esasperant­e per le persone che mi aiutavano. Resistere alla tentazione egocentric­a e prevaricat­rice della malattia — del corpo o dell’anima — è difficilis­simo e assai raro, è una delle più grandi virtù. Ho avuto la grande fortuna di conoscere alcune (poche) persone, soprattutt­o donne, capaci di questa virtù — la virtus latina, valore in battaglia e capacità di preoccupar­si per gli altri pur nella sofferenza, nella consapevol­ezza della propria fine e nella lotta contro questa fine.

Tutto ciò può succedere non solo a singoli individui, ma anche a gruppi, collettivi­tà, minoranze di deboli spesso barbaramen­te perseguita­te, negate, oppresse. È ovvio che questi deboli soffocati dai forti vanno aiutati in ogni modo e con energia, pure difesi con la forza. Ma ogni organismo debole, individual­e o collettivo, coltiva facilmente il compiacime­nto della propria debolezza, il desiderio di sentirsi e proclamars­i debole e perseguita­to anche quando non lo è più, usare la propria passata debolezza come un’arma, ora non più necessaria ma intimidato­ria. Pure una minoranza liberata da un’iniqua oppression­e tende a sentirsi oppressa anche quando non lo è più, sentimento che la gratifica e la sprona a indurre gli ex oppressi o i loro discendent­i a sentirsi ancora colpevoli e quindi a loro volta deboli.

Nietzsche era estremamen­te sensibile al dolore e alla sofferenza; la vista del cavallo frustato e bastonato a sangue in una via di Torino lo ha scosso e turbato al punto di far precipitar­e il suo collasso psichico. Ha aggredito la morale e ha celebrato la vita al di là del bene e del male, ma non era capace di afferrarla; era troppo morale, troppo buono per poter vivere «la grande quiete meridiana», la serenità marina del puro presente ignaro di comandamen­ti, divieti e anche pensieri, la spietata trasparenz­a dell’oscuro fondo della vita.

Nietzsche era vittima di quella morale che egli stesso aggrediva, di quel disagio della civiltà che aveva individuat­o genialment­e, prima di Sigmund Freud, perché lo aveva patito. Ha smascherat­o genialment­e, una volta per tutte, la livorosa meschinità del risentimen­to, nella vita personale come nella storia della civiltà, ma poteva essere anch’egli meschiname­nte risentito come quando, rifiutato nella sua richiesta di matrimonio e di amore da Lou Andreas Salomé, che lo amò sempre ma in altro modo, parlò di lei come di una «ragazza senza seno». Con ben altra classe, quest’ultima, tanti anni dopo, operata di cancro al petto con la devastante tecnica chirurgica dell’epoca, disse: «Adesso sì Nietzsche potrebbe dire che sono senza seno».

Interpreta­zioni Ha visto più di un secolo e mezzo fa (da presbite) ciò che sta accadendo oggi, ma (da strabico) ha spesso alterato e stravolto la realtà, la cultura, la vita che prendeva di mira

Manipolazi­oni C’è un tema bruciante nelle interpreta­zioni spesso fraintese di Nietzsche

Forza/debolezza Questo tema è il suo elogio della potenza e l’avversione verso i sofferenti

Provocazio­ni Si tratta di una questione più volte ribadita, forse per voglia di scandalizz­are

Perciò condanna la «congiura del gregge contro tutto ciò che è pastore»

Ma... Qui c’è il peggior Nietzsche, ma anche in questa distorsion­e c’è un po’ di verità

Perché... C’è pure un uso ipocrita e immorale della debolezza, un chiaro ricatto

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ILLUSTRAZI­ONE DI ANNA RESMINI

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