Corriere della Sera - La Lettura
1918 2018 La lezione dimenticata
Dopo la Prima guerra mondiale la prevalenza degli egoismi nazionali dei vincitori pose le basi di un altro conflitto. Oggi si rivela deleterio l’ingresso nell’Ue dei Paesi ex satelliti di Mosca. Molto meglio una pacifica secessione
Quando chiesero un armistizio, nell’autunno del 1918, i Paesi sconfitti della Prima guerra mondiale cercarono di sottrarsi alle misure punitive dei vincitori invocando i 14 punti che il presidente degli Stati Uniti aveva enunciato nel suo discorso al Senato americano l’8 gennaio precedente. Woodrow Wilson proponeva al mondo una diplomazia trasparente, libertà di navigazione, rimozione delle barriere commerciali, il ritiro delle truppe dai territori occupati, una maggiore sensibilità per i desideri e gli interessi delle popolazioni nei possedimenti coloniali, la restaurazione del Belgio, la rinascita della Polonia, l’applicazione del principio di nazionalità per la definizione di nuove frontiere, soprattutto negli imperi multi-nazionali, da quello austro-ungarico a quello ottomano. E terminava il suo appello invocando la creazione di una Società delle Nazioni, a cui sarebbe stato affidato il compito di regolare le controversie e punire le infrazioni del diritto internazionale.
La realtà, dopo la firma dei trattati di pace, fu alquanto diversa. La diplomazia dei vincitori spogliò l’Ungheria delle sue terre slave (Slovacchia e Croazia), ma regalò alla Romania gli ungheresi della Transilvania. Tolse la Slovenia all’Austria, ma impedì agli austriaci di formare con la Germania un più grande Stato di lingua tedesca e dette all’Italia, insieme a Trento e a Trieste, i sudtirolesi della provincia di Bolzano. Creò un nuovo Stato slavo, la Cecoslovacchia, ma mise sul piatto, per buona misura, i tre milioni di tedeschi del Sudetenland. Restaurò la Polonia, ma arrotondò i suoi confini con territori, lungo la frontiera occidentale, in cui risiedevano antiche comunità tedesche. L’Impero ottomano fu divorato, ancor prima della sua morte, da Francia e Gran Bretagna, con qualche boccone all’Italia. Le colonie tedesche furono spartite fra i tre maggiori imperi coloniali dell’Africa nera (Belgio, Francia e Gran Bretagna).
Quando si cominciò a parlare degli indennizzi che la Germania avrebbe dovuto pagare ai vincitori, i francesi prepararono un minuzioso elenco dei danni subiti dai territori occupati e dei costi umani. La cifra calcolata dal loro ministro delle Finanze fu di 134 miliardi di franchi, pari a 5 miliardi e 360 milioni di sterline. Un giovane e brillante economista inglese, John Maynard Keynes, scrisse un libro profetico ( Le conseguenze economiche
della pace) per spiegare quali effetti una cifra di tale grandezza avrebbe avuto per l’economia, non soltanto tedesca. Ma il problema delle riparazioni rimase una spina nel fianco della Germania e dell’intera Europa sino a quando, con l’avvento di Adolf Hitler al potere, il problema venne bruscamente accantonato.
Un’altra spina nel fianco fu la politica degli Stati Uniti. Non chiesero indennizzi, ma pretesero il pagamento dei debiti che gli Alleati, durante la guerra, avevano contratto con le loro banche. Qualcuno (Keynes fra gli altri) osservò che gli americani avevano speso per la guerra molto meno dei loro alleati e che la migliore delle soluzioni possibili sarebbe stata l’azzeramento di tutti i debiti. Ma l’America stava ridiventando isolazionista e il governo insistette per il rimborso di una parte considerevole dei suoi prestiti; mentre il Congresso degli Usa rifiutò di ratificare un trattato di pace, negoziato a Versailles, che
prevedeva, tra l’altro, la creazione di quella Società delle nazioni che Wilson aveva auspicato nel suo quattordicesimo punto. Accadde così paradossalmente che gli Stati Uniti, dopo averne proposto la creazione, rifiutarono di partecipare alla gestione della loro creatura e voltarono le spalle all’Europa per più di vent’anni.
Alla fine della Seconda guerra mondiale molti avevano ormai idee chiare sulle origini e sulle responsabilità del conflitto. In Europa sapevamo che lo scontro dei nazionalismi contrapposti era stato per l’Europa stessa una sorta di suicidio collettivo; che il protezionismo e l’autarchia avevano drasticamente ridotto gli scambi internazionali e impoverito l’intero continente; mentre l’America non ignorava che la sua assenza aveva reso la maggiore organizzazione internazionale molto meno efficace di quanto sarebbe stata con la sua presenza.
Per riparare agli errori commessi nel primo dopoguerra, furono prese nel secondo iniziative utili e promettenti. Franklin D. Roosevelt si prodigò per la creazione di una nuova Società delle Nazioni che fu chiamata Onu e ottenne l’approvazione del Congresso. Anziché chiedere indennizzi e rimborsi, il suo successore, Harry Truman, finanziò con il piano Marshall la ricostruzione delle democrazie europee; e avrebbe finanziato anche quella della Cecoslovacchia se l’Unione Sovietica non lo avesse proibito. Per non cedere alla tentazione del protezionismo fu creato il Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade). Alcuni Paesi europei si unirono per condividere le principali risorse (carbone e acciaio) necessarie per la loro esistenza, e cominciarono un percorso che avrebbe avuto per effetto, all’inizio degli anni Novanta, la creazione di un mercato unico e una unione monetaria.
Ma contemporaneamente i vincitori, veri o presunti, della Seconda guerra mondiale ricominciavano a comportarsi come vincitori. La Russia di Stalin si servì della sua ideologia per meglio estendere la propria influenza. Nel 1953 Gran Bretagna e Stati Uniti organizzarono un colpo di Stato in Iran per meglio controllare le risorse petrolifere del Paese. Francia e Gran Bretagna cercarono di togliere al governo egiziano, con la spedizione di Suez del 1956, il controllo della sua maggiore via d’acqua. La decolonizzazione fu ritardata dalla riluttanza dei vecchi dominatori in Vietnam, Algeria, Malesia, Rhodesia, Angola. Per meglio esercitare la loro leadership gli Stati Uniti crearono alcune centinaia di basi militari nel mondo e si impegnarono in numerosi conflitti, dalla Corea al Vietnam, dall’Afghanistan all’Iraq, quasi sempre con risultati mediocri, se non addirittura negativi. Per almeno tre generazioni l’Europa ha ospitato due organizzazioni militari — la Nato e il Patto di Varsavia — che si guardavano in cagnesco, ma ebbero almeno il merito di garantire la pace nel continente. Ciascuna delle due sapeva che ogni tentativo di prevalere sull’altra avrebbe scatenato un conflitto nucleare. Le guerre scoppiavano altrove e regalarono all’Europa la più lunga pace della sua storia.
La fine della guerra fredda e il collasso dell’Unione Sovietica hanno reso l’Europa molto più insicura. Le sue nazioni hanno dimenticato quasi tutte le lezioni che la storia aveva impartito al loro continente durante il XX secolo. La lista dei disastri è lunga. È scomparso il Paese (la Jugoslavia) che negli anni della guerra fredda aveva recitato la parte dell’utile cuscinetto fra i due blocchi. Il fallimento delle modernizzazioni di tipo occidentale nei Paesi musulmani del Mediterraneo e del Levante ha provocato un risveglio religioso che ha generato il terrorismo islamista. La incontrollabile fantasia finanziaria di Wall Street ha creato mostri (i derivati) che hanno contagiato le nostre economie per un decennio.
La globalizzazione ha salvato dalla povertà molte centinaia di milioni di esseri umani, soprattutto in Asia, ma è responsabile, insieme alle nuove tecnologie, del malessere di gruppi sociali che avevano conquistato un decoroso livello di vita nel Paese in cui erano nati e vivevano di un mestiere destinato a divenire, di lì a poco, obsoleto. L’immigrazione dall’Africa e dall’Asia (forse la sola risposta razionale al declino demografico di molte democrazie occidentali) ha provocato la nascita di un ribellismo piagnucoloso e vittimista, che raccoglie consensi soprattutto là dove alcuni ceti sociali hanno sviluppato una patologica paura del futuro.
La principale vittima di queste nuove paure è stata l’immagine dell’Europa. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la sua unità è stata percepita, per alcune generazioni, come il migliore rimedio agli errori che avevamo commesso dopo la fine del primo conflitto. Il Manifesto di Ventotene, insieme ad altri scritti di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Luigi Einaudi, ha avuto, non soltanto per l’Italia, una importanza comparabile a quella dei 14 punti di Wilson per l’intera comunità internazionale. Grazie all’unità dell’Europa, avremmo smesso di litigare per le nostre frontiere. Avremmo unito le nostre forze per affrontare insieme il problema del nostro sviluppo economico. Avremmo fatto leggi valide per l’intero continente. Avremmo garantito ai nostri figli e alle nostre imprese il diritto di muoversi liberamente per studiare, lavorare e intraprendere là dove avrebbero meglio valorizzato le loro capacità. Avremmo creato un Parlamento per studiare e approvare politiche comuni. E la forza dell’unità ci avrebbe permesso di negoziare migliori condizioni per commerciare in un mondo dominato da potenze continentali. I progressi non sarebbero stati immediati, ma ogni rinuncia alla nostra sovranità sarebbe stata ripagata dalla crescita di una più grande sovranità comune.
Tutti questi principi sono stati messi in discussione, all’interno della Unione Europea, da due fenomeni paralleli. Il primo è l’avversione all’Ue di movimenti e partiti nazional-populisti. Avevano bisogno di un nemico per meglio mobilitare i loro elettori e lo hanno trovato nella burocrazia di Bruxelles. Come ogni fenomeno politico anche questo ha avuto effetti che potrebbero rivelarsi positivi. L’uscita della Gran Bretagna dall’Ue dopo il referendum del giugno 2016 ci ha liberati di un partner che non voleva l’unità dell’Europa e che ne avrebbe fatto, se le sue idee avessero prevalso, una semplice zona di libero scambio. Ma l’ingresso nell’Unione dei Paesi che erano appartenuti al blocco sovietico ha avuto, nel frattempo, conseguenze ancora più negative.
Mentre i Paesi fondatori (i sei della Ceca e dei trattati di Roma) ricordavano la tragedia dei nazionalismi ed erano pronti, anche se con frequenti esitazioni, a sacrificare la propria sovranità per la creazione di una Europa federata, gli ex satelliti ricordavano soprattutto il loro asservimento allo Stato sovietico e avevano salutato la fine della guerra fredda come un ritorno alla sovranità nazionale sotto l’ombrello protettore degli Stati Uniti. Con tutte le differenze del caso siamo in una situazione non troppo diversa da quella in cui si trovarono gli Stati Uniti quando il Paese si divise fra unionisti e confederati. Vi fu allora una guerra che dette la vittoria agli unionisti. Nel nostro caso basterebbe una pacifica secessione.