Corriere della Sera - La Lettura
Il senso storico dei poeti, saggisti per ispirazione
Coleridge, Baudelaire, Yeats, Bonnefoy... sono insuperabili Hanno vissuto vite ossessive e asfittiche. E non si sono riavuti
«Avere senso storico significa essere consapevole non solo che il passato è passato, ma che è anche presente». Questa celebre chiosa di T. S. Eliot calza a pennello al libro che Raffaele Manica — uno dei nostri saggisti più colti e raffinati — ha dedicato a Mario Praz, il più colto e raffinato di tutti.
In Praz il senso storico è così vivo e incombente da correre costantemente il rischio di impantanarsi. L’occhio fisso su scrittori minori, avanzi da rigattiere e musei di provincia — testimoni genuini di epoche lontane — tende allo strabismo; la passione per il kitsch, per la couleur du temps può risultare stucchevolmente snob; l’erudizione è sontuosa e ridondante come il museo domestico in cui scelse di seppellirsi. E tuttavia è quel medesimo senso storico a rendere Praz un connaisseur inimitabile, un ironista caustico e mordace, uno scrittore dal gusto talmente saldo da scantonare nel disincanto, se non proprio nel cinismo.
A tal proposito anni fa Giorgio Ficara scriveva: «Per questo incoercibile materialista non esistono idee, né disegni estetici, senza un’epoca, senza uomini caduchi e invecchianti, senza le vite e tutti gli ornamenti e i pesi della vita, e case, ambiente, cose, archivi, sedie, sofà, astucci, specchi, cassettoni, scale, cuscini, cortine, granelli di polvere, corridoi...». D’altronde, il materialismo spiega parecchio di Praz, quasi tutto: l’insofferenza alle idee generali e ai pomposi sistemi ermeneutici, il fastidio per la magniloquenza degli elogiatori e per lo sde- gno dei censori petulanti. Spiega il disinteresse per le ideologie settarie e le scienze sociali.
A lui stanno a cuore i manufatti, e ciò che essi hanno in comune tra loro. Eccolo maneggiare un verso di Swinburne con la disinvoltura di un mercante di stoffe, e un abito Fortuny con l’acribia di un filologo. Eccolo accostare Milton a Poussin (un poeta a un pittore) per il comune debito nei confronti del classicismo italiano. E questo senza mai imboccare le scorciatoie della sinestesia. Anzi, a dispetto delle apparenze, uno dei suoi idoli polemici è la cosiddetta critica estetica, decadente e tardo-romantica che sia: sebbene li apprezzi, sono molte le cose che non perdona a Pater e a Ruskin. A Oscar Wilde, invece, riserva un divertito disprezzo.
«Come pochi altri cultori di cose andate — ci spiega Manica — Praz ha avuto sempre massima considerazione del presente: non solo perché lì tutto confluiva, ma perché il passato esiste e conta solo se raccontato da un presente che lo revisiona. È un presente che il passato si inventa e attiva, vive». E viene il sospetto che anche Manica abbia in mente Eliot (a un certo punto cita il prezioso carteggio tra i due). Il proverbiale passatismo praziano, ammonisce Manica, non va quindi inteso come morboso culto antiquariale ma come uno state of mind. La tradizione non definisce il rapporto con il mondo di ieri verso cui sembra volgersi, ma con ciò che siamo oggi. Dopotutto, come può un materialista credere fino in fondo nel passato?
Manica fa risalire la messa a punto dell’inconfondibile vena di Praz alla sua traduzione dei Saggi di Elia di Charles Lamb uscita nel 1927, a quanto pare non molto apprezzata da Emilio Cecchi.
Per chi non lo sapesse Charles Lamb è un formidabile scrittore inglese vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. Di estrazione modesta, con un cruento dramma familiare alle spalle, intimo amico di Coleridge, si cimentò in diversi generi letterari, distinguendosi nella molto britannica arte del saggio autobiografico, alla cui codificazione fornì un contributo eccelso e determinante. In quanto tale Praz, poco più che trentenne, lo celebra, conferendogli gli onori che meritano i grandi precursori, assimilandolo niente meno che a Plutarco, a Seneca e sopratutto a Montaigne (santo patrono degli egotisti in-
«Avere senso storico significa essere consapevole non solo che il passato è passato, ma che è anche presente». Questa chiosa di T. S. Eliot calza a pennello al libro di Raffaele Manica
clini alla divagazione). Una genealogia di prim’ordine che dimostra l’importanza attribuita da Praz a Lamb. Del resto, bastano alcuni titoli dei Saggi di Elia per dare conto dell’audacia e della stravaganza di Lamb: «Le due razze d’uomini», «Streghe ed altri terrori notturni», «Lagnanze per la decadenza dei pezzenti nella Metropoli», «Vecchie porcellane cinesi»... Be’, citandoli così alla rinfusa, non sorprende che Lamb piaccia così tanto a Praz, né cha Manica indugi su questa predilezione elettiva. «Caratteristica dei Saggi di Elia », scrive Praz in un testo degli anni Quaranta «accanto alla squisitezza della forma, all’ingemmatura di allusioni dotte — quasi lavoro di tarsia, come se l’autore provasse un gusto di raccoglitore o di arredatore, a collocare in posizioni mirabilmente appropriate, reminescenze erudite — la deliberata assenza di enfasi, l’antiretorica, il non lasciarsi trascorrere alla piena orchestra, al modo dei romantici: il voler serbare un tono in sordina, spegnendo con l’humour ogni accensione troppo avventurosa». E ha ragione Manica: pare proprio che Praz parli di sé. È suo il gusto del raccoglitore e dell’arredatore, ma soprattutto è sua l’antiretorica e il senso nero dell’umorismo. Da questa peculiare temperie scaturirà presto il famoso e controverso capolavoro di Praz: La carne, la morte e il diavolo (un titolo che forse sarebbe piaciuto a Lamb e che di certo piace tanto a noi). Un libro destinato a gua- dagnarsi stroncature illustri, applausi sperticati, una inaudita fama internazionale e un numero imprecisato di ristampe, non solo in Italia, che lo hanno salvato dall’oblio. Per definirlo mi affido volentieri a Manica: «Camera delle meraviglie o galleria di quadri in esposizione irti di reciproche connessioni, lezione di anatomia o ronda notturna, il libro è sul disfacimento e sul vizio». Praz «scruta, annota e va avanti nel girone infernale dell’età romantica quasi volendo ignorare che su medesime figure dell’anima, a un dipresso, Freud ha costruito, scavando, un romanzo terapeutico a puntate».
Forse Praz preferisce ignorarlo — Freud, intendo, e le sue teorie — perché sa che dall’inferno della morte e della carne non ci si può riavere. Sa che non c’è terapia, guarigione, exit strategy. Una volta dentro, sei fritto, non hai scampo. Il che spiega perché sia così difficile riaversi da Praz, e chissà forse ciò getta un po’ di luce sulla sua fama saturnina (per usare un eufemismo benevolo).
È bene che metta le carte in tavola. Sebbene lo ami molto, e un po’ lo conosca, non riesco a leggere Praz se non un po’ alla volta. La verità è che, malgrado si sia dedicato a parecchie altre cose, anche lontane dalle precoci investigazioni intorno all’universo decadente, Praz non ha mai ripudiato sé stesso. C’è un'ossessione ottusa in lui, la stessa che, anche se applicata ad altri oggetti, ravviso nei massimi critici italiani del ’900, e non solo italiani a dire il vero: in Debenedetti, in Macchia, in Manganelli, per dire di quelli che conosco meglio. Ed è strano, perché la saggistica dovrebbe essere un esercizio intellettuale, e per questo libero da ogni fissazione nevrotica o vincolo autobiografico. La saggistica passa per un’occupazione erudita, affidata a professori o a dotti provvisti di temperanza e buonsenso. Ma le cose non stanno così. I grandi saggisti somigliano ai grandi poeti: sono chiusi in sé stessi, condannati al proprio piccolo claustrofobico mondo. Non sarà un caso se i contributi saggistici forniti dai poeti di solito (non sempre) sono di gran lunga più interessanti di quelli prodotti dai narratori. Allora capiamo meglio perché Coleridge, Leopardi, Baudelaire, Valéry, Eliot, Yeats, Brodskij, Bonnefoy, solo per citare i primi che mi vengono in mente, siano saggisti insuperabili. Anche loro, come Praz, hanno vissuto imprigionati in esistenze ossessive e asfittiche. E anche loro non si sono riavuti.
Raffaele Manica, uno dei nostri saggisti più colti e raffinati, ha dedicato questo volume a Mario Praz, il più colto e raffinato di tutti, e alla sua inconfondibile vena