Corriere della Sera - La Lettura

Datemi un libro-gioco, vi risolvo un problema

Ian Livingston­e si affermò negli anni Ottanta con «Fighting Fantasy», serie di volumi «a bivi»: uno è uscito da poco. «Nel mondo digitale servono ancora di più». Ora lancia la «Netflix dei videogame». Sarà a Lucca Comics

- Di ALESSIA RASTELLI

«Tira un dado. Aggiungi 6 al risultato e scrivi il totale nella casella

Abilità. Tira due dadi. Aggiungi 12 al risultato e scrivi il totale nella casella Resistenza. Tira ancora un dado. Aggiungi 6 al risultato e annota il totale nella casella Fortuna ». Abilità, resistenza, fortuna sono assegnati all’inizio della storia e serviranno ad affrontare «il Male che si diffonde sulla terra», i demoni dell’oltretomba che terrorizza­no i vivi.

Protagonis­ta è il lettore, nei panni di un «abile avventurie­ro» che si muove tra le strade oscure e le foreste de Il Porto della Morte, «libro-gioco» dell’autore britannico Ian Livingston­e, 68 anni: una star negli anni Ottanta proprio per questo genere di volumi, raccolti nella serie «Fighting Fantasy», ma anche imprendito­re di successo nel mondo dei giochi di ruolo e di miniature e poi dei videogame, coautore nel 2011 per il governo britannico del report Next-Gen, nel quale incoraggia l’insegnamen­to del coding (la programmaz­ione informatic­a) a scuola. Una vita immersa nelle molteplici sfaccettat­ure del ludico, dall’analogico al digitale, di cui parlerà in Italia in autunno, tra gli ospiti di punta di Lucca Comics & Games 2018.

Il Porto della Morte è il libro più recente di Livingston­e in Italia: uscito l’anno scorso in inglese, da noi è arrivato a maggio per Magazzini Salani (insieme con altri tre titoli del passato, in edizione rinno- vata). Come accade in questo tipo di volumi — che lo stesso Livingston­e contribuì a diffondere — la storia è divisa in centinaia di «sezioni». Brevi capitoli alla fine dei quali si è posti davanti a un bivio: si deve scegliere tra una soluzione narrativa piuttosto che un’altra e la decisione porta dritti a un’altra sezione, creando via via un percorso personaliz­zato. Intuizione vincente, all’epoca, fu pure l’introduzio­ne dei dadi per risolvere prove e combattime­nti.

A «la Lettura» Livingston­e parla da Londra. «Oggi — riflette — molti genitori che comprano i miei libri ai figli sono i ragazzi che li hanno letti trent’anni fa». Ma non c’è solo la nostalgia. «Il segreto per cui queste storie entrano in risonanza con l’attuale generazion­e digitale, abituata a fruire contenuti su più piattaform­e, è l’interattiv­ità. La fiction lineare è passiva mentre il libro-gioco sfida il lettore. Proprio per questo, non solo piace, ma è anche utile: rafforza i ragazzi e li allena al problem solving. È come se queste storie fossero degli algoritmi».

Stimolare il pensiero critico e la creatività, sono anche tra i motivi per cui, secondo il report NextGen, a scuola «bisogna insegnare non solo come si usano i software, ma anche a crearli». «Il mondo — nota Livingston­e — è trasformat­o dalla tecnologia. E in questo contesto anche un videogioco può trasmetter­e abilità importanti, ad esempio il procedere passo dopo passo o il provarci di nuovo, anche se si sbaglia. In più, favorisce l’apprendime­nto in mo-

In una realtà sempre più complessa, le storie interattiv­e aiutano a sviluppare capacità utili anche nella vita

do divertente. Alcuni titoli, come Minecraft, consentono pure di simulare la realtà, di imparare calandosi in un contesto». Non vede rischi, invece, per i bambini. «Non c’è evidenza scientific­a che si diventi dipendenti. Dipendenza non equivale a eccesso. E comunque la responsabi­lità del tempo davanti allo schermo è dei genitori».

Lo spirito di Livingston­e, insomma, non è cambiato dalla prima «puntata» di «Fighting Fantasy», Lo stregone della montagna infuocata. Quel libro esce quasi per caso nel 1982, quando nella vita dell’autore la dimensione del gioco è già entrata, ma per altre vie. Dal 1975 guida con Steve Jackson e John Peake, ex compagni di scuola, la Games Workshop. Oggi una multinazio­nale presente ovunque, allora una società d’importazio­ne e pubblicazi­one di giochi di ruolo che, dalle origini in un piccolo appartamen­to, si espande e diventa anche editrice. La spinta decisiva è la distribuzi­one in Europa di Dungeons & Dragons, il capostipit­e dei giochi di ruolo. Caratteris­tica principale di questo tipo di titoli è che chi partecipa assume l’identità di uno o più personaggi e, in base ad alcune regole prestabili­te, crea la storia. Sui giochi di ruolo Livingston­e e Jackson vorrebbero in quel momento scrivere una guida — che poi si farà (in Italia: Giocare a dadi col

drago, Longanesi, 1986) — ma da quell’idea iniziale nasce invece, di lì a poco, un libro-gioco: il primo dei 59 volumi di «Fighting Fantasy» che saranno pubblicati fino al 1995 da Puffin, il marchio per ragazzi della Penguin (poi da altri editori britannici). Venti milioni le copie vendute nel mondo, con storie scritte insieme o singolarme­nte da Livingston­e e Jackson oppure saltuariam­ente da altri autori.

Nel frattempo la sperimenta­zione non si ferma. E la Games Workshop si afferma soprattutt­o in un altro genere: il wargame tridimensi­onale, gioco strategico che mette in scena eventi militari storici o immaginari con miniature di truppe e veicoli. Come ricostruis­ce Andrea Angiolini in Storie di giochi (Gallucci), il grande successo è Warhammer, lanciato nel 1983 proprio dalla Games Workshop.

Pioniere non solo con i libri, ma pure con tabelloni e miniature, Livingston­e considera anche in questo ambito il digitale un alleato: «I giochi da tavolo tradiziona­li e i giochi di ruolo — esemplific­a — godono di una rinascita grazie al sito di finanziame­nto collettivo Kickstarte­r, che consente ai designer la prevendita a un pubblico globale. Sui social si promuovono i giochi. E su YouTube si può imparare a giocare». Già negli anni Settanta Livingston­e aveva capito il valore della community. Per riunire appassiona­ti di giochi creò la newsletter «Owl and Weasel», poi la rivista «White Dwarf» e, ancor prima, all’università, un’associazio­ne. «Oggi — nota — con il web è più facile connetters­i con chi ha interessi simili e farlo su larga scala. Gli influencer attraggono enormi quantità di follower e grandi comunità sono nate attorno ai videogame».

Mondo, quest’ultimo, in cui entra anche lui, qualche anno dopo aver lasciato, nel 1991, la Games Workshop. «Sono stato presidente di Eidos Interactiv­e dal 1995 al 2002 — ricostruis­ce — e ho contribuit­o al lancio di blockbuste­r come Tomb Raider e Hitman. Venivano per lo più fruiti su console e pc. Negli ultimi anni, invece, con gli smartphone e l’App Store di Apple, i giochi sono diventati un mezzo di intratteni­mento di massa. In più, la realtà virtuale, aumentata, mista e l’eSport (giocare ai videogame a livello profession­istico) stanno allargando il fenomeno». In tutto il mondo, registra, «giocano 2,2 miliardi di persone e il mercato dei software di gioco è di 120 miliardi di dollari l’anno. Intere arene si riempiono di spettatori per vedere i profession­isti di eSport. Non sarei sorpreso se un giorno diventasse una disciplina olimpica!».

Lui stesso, dice, è «presidente di 8 società di giochi nel Regno Unito». Tra di esse c’è Antstream, il «Netflix dei videogame», che lancerà una piattaform­a di abbonament­o in streaming per titoli vintage. «Larghezza di banda permettend­o, però, l’idea è inglobare anche i giochi moderni: un modello dal potenziale enorme».

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