Corriere della Sera - La Lettura
Walt Whitman, cronista vagabondo
L’autore di «Foglie d’erba» realizzò non solo un grande esperimento letterario. Il suo stile veicola un mondo, un’idea di eros e natura, religione e democrazia. Che ora rivivono in una nuova edizione dell’antologia curata da Roberto Sanesi
Amo Walt Whitman, «un cosmo, il figlio di Manhattan», come amo il jazz, catturato da quel suo stile istantaneo, ondoso, ventoso, trascinante, totalmente innovativo rispetto ai suoi tempi. Ma, al di là del suo grandioso esperimento letterario, che Borges giudica riuscito con naturalezza assoluta, amo anche il mondo che quello stile veicola, quelle sue visioni di Natura, Eros, Religione, Democrazia che si compongono in una sorta di «libro sacro» di bruciante attualità oggi, nel XXI secolo.
È appena stata opportunamente riproposta da Lindau un’antologia di Fo
glie d’erba intitolata Walt Whitman tradotto da Roberto Sanesi, che si avvale delle versioni precise, nitide dello stesso Sanesi, e che non comprende alcuni testi capitali, come quel celeberrimo O
Capitano! Mio capitano!, acclamato dai lettori più giovani. Ma basta questa scelta antologica per confermare la forza attrattiva di Whitman. Il suo linguaggio scardina ogni convenzione, va come una barca con le vele alzate attraverso onde imperiose e «canta, naviga, sul blu senza confini», sino a esplorare ogni mare. Si nutre di enumerazioni debordanti, simili a quelle dell’Iliade di Omero, di oratoria teatrale, da attore shake- speariano, e insieme di immediatezza, da vociante cronista del proprio tempo. Abbatte ogni barriera tra carne e spirito, corpo e anima, senso letterale e simbolo: è il canto democratico di Nuove Muse nel Nuovo Mondo.
In questo linguaggio che sa essere volta a volta epico, drammatico, lirico, narrativo, celebrativo, sciamanico, sapienziale, il poeta con il suo io multiforme è sempre in comunione con gli altri, annuncia che «giungono continuamente gli immigranti e sbarcano», dà asilo allo schiavo fuggitivo dagli occhi roteanti, gli porge panni puliti, sollievo alle piaghe delle catene, ricorda gli eroi perdenti e sconosciuti, fa risuonare le voci restate lungamente in silenzio, quelle «d’interminabili generazioni di prigionieri e schiavi», le voci «dei malati, dei disperati, dei ladri, dei bastardi».
La natura in Foglie d’erba è una continua, vorticosa emanazione di vita. Nessun meccanicismo, nessuna logica cartesiana la può imbrigliare. Quando un bambino chiede al poeta cos’è l’erba, la risposta è un fuoco di fila di metafore visionarie: è un vessillo tessuto di verde speranza, il fazzoletto del Signore, un fanciullo nato dalla vegetazione, un geroglifico che appartiene a civiltà diverse, «l’intonsa e bella capigliatura delle tombe». Così, per accumulazione di immagini, procede Whitman, sino alle conclusioni per cui anche il germoglio più tenero mostra che realmente non esiste la morte, e che «tutto avanza e procede, senza mai annullarsi».
L’eros in Foglie d’erba è la legge di gravitazione universale che spinge un corpo verso l’altro per il raggiungimento del piacere: «io sono per quelli che credono agli sfrenati piaceri, e divido le orge notturne dei giovani,/ danzo coi ballerini e bevo con chi beve». L’omosessualità nel canto di Whitman non si distingue dalla eterosessualità, è naturale, senza ipocrisie, senza freni, e non prevede ghetti in cui chiudersi tra rivendi ca z i oni e l a gne di s e nsi di col pa. L’eros per Whitman è l’instancabile motore che trasforma il «corpo elettrico» con le sue parti anche più nascoste, i polmoni con le loro «spugne», il cervello con le sue «pieghe a spirale», in energia d’anima, è il collante tra i corpi e il cosmo. La religione che affiora in Foglie d’erba non si può ridurre a un panteismo vagamente misticheggiante. Whitman non è affatto vago quando afferma di praticare tutti i culti antichi e moderni, di attendere i responsi degli oracoli, di rendere onore agli dèi, di porgere il saluto al sole, di farsi un idolo con una pietra o un tronco. È un antico greco, un indù, uno sciamano pellerossa. Ammira i Veda, onora il Corano, accetta i Vangeli e si inginocchia alla Messa. Il poeta si sente «divino di dentro e di fuori», e rende sacra qualsiasi cosa tocchi o lo tocchi. La democrazia, infine, di cui Whitman è il cantore e il celebratore — si pensi alla bellissima trenodia dedicata alla morte di Lincoln, alla esaltazione dei lavoratori, delle masse, degli umili — non ha a che fare con la visione di Rousseau, che secondo alcuni punti di vista apre anzi la via ai totalitarismi novecenteschi. È una democrazia storica ma anche utopica, in cui confluiscono in un abbraccio universale natura, eros, religione, una fraterna, amorosa unione dei corpi e delle anime, sempre da inventare e rinnovare. Non esiste democrazia compiuta, esiste il sogno continuo di una realtà più libera, aperta, umana, che un uomo chiamato Walt Whitman, vagabondo cronista e visionario profeta, ha sognato per noi attraverso il suo canto.