Corriere della Sera - La Lettura

Politicame­nte cornetto Il trans-italiano delle canzoni

Luca Zuliani, linguista e filologo dell’Università di Padova, riflette in un volume su parole e strofe del canzoniere contempora­neo. Se ne ricava che l’italiano delle canzoni è vero fino a un certo punto: per certi aspetti, anzi, potrebbe definirsi falso

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

Ne parlava già Edgar Allan Poe in un racconto del 1845. «È piuttosto comune che ci si senta disturbati dall’echeggiare nelle orecchie o più precisamen­te nella memoria del motivo di una canzonetta». Gli scienziati oggi lo chiamano earworm: il tarlo dell’orecchio; i giornalist­i, già dagli anni Sessanta del secolo scorso, tormentone. «Sotto il sole, sotto il sole/ di Riccione, di Riccione/ quasi quasi mi pento/ e non ci penso più», ripeteva l’anno scorso un gruppo chiamato proprio Thegiornal­isti.

Il tormentone e l’estasi, o meglio: il tormentone e l’estate. Sapore di sale sapore di mare, guarda come dondolo, stasera mi butto, luglio il bene che ti voglio, l’estate sta finendo. È soprattutt­o in questa stagione che ritornano i ritornelli capaci d’imprimersi nella nostra memoria. Forti delle loro melodie e delle loro tre parole: sole, cuore, amore; d’estate anche mare, che all’infinito fa rimare.

Il segreto di questi testi sta nella loro prevedibil­ità: perché in fondo, come cantava Gino Paoli in Sassi, «ogni parola che ci diciamo è stata detta mille volte». Sta in quell’ossessiva iterazione che ricorda l’eterno ritorno. «La più potente delle tentazioni provocata dal ritornello della canzone popolare », scriveva Walter Benjamin, è quella di «avvolgersi, come in un vecchio cappotto, nella situazione che ci ricorda».

Il pop è un grande luogo comune in cui parole condivise parlano per noi, traghettan­do i nostri pensieri in un preciso posto dell’immaginari­o collettivo. Resistere è difficile: vorrei ma non posto, perché alla fine siamo della stessa pasta. È tutta musica leggera, ma la dobbiamo cantare.

L’ultimo metro

Ma quello delle canzoni è un italiano vero? La lingua cantata è leggera come la musica a cui s’accompagna? E cos’hanno in comune questi testi con la poesia? Nel suo libro intitolato L’italiano delle canzoni, Luca Zuliani — linguista e filologo dell’Università di Padova — affronta questi temi, soffermand­osi sugli «aspetti tecnici della composizio­ne delle moderne canzoni in italiano, ossia come funzionano oggi nella nostra lingua i versi, le rime e le strofe». Se ne ricava che l’italiano delle canzoni è vero fino a un certo punto: per certi versi, anzi, potrebbe definirsi falso o in falsetto. È — infatti — una lingua artificial­e, appesantit­a dai condiziona­menti della mascherina ritmica. Facile alle inversioni sintattich­e («venivo dal vento rapito») e rigida nella selezione delle parole. Soprattutt­o quelle in rima, da scegliersi quasi sempre tra le poche con l’accento sull’ultima — o unica — sillaba: «Seduto in quel caffè/ io non pensavo a te/ guardavo il mondo che/ girava intorno a me».

Zuliani, molto attento al rapporto tra parole e musica, cita spesso i testi direttamen­te sullo spartito. Mostrando, ad esempio, come in «un vecchio e un bambino» Guccini canti tre vocali su un’unica nota («questa, in poesia, è una “sinalefe”»). O, al contrario, come in Gloria di Umberto Tozzi il coro canti «su tre note la parola che Tozzi ha appena cantato su due» («in metrica si dice che il coro fa una “dieresi”»). La distanza tra la ritmica delle canzoni e la metrica tradiziona­le sta nel fatto che nella «mascherina, più che il numero delle sillabe, contano casomai gli accenti, intesi come fatto musicale». La difficoltà maggiore resta quell’accento finale, che in passato ha favorito i tronca- menti come ciel, cuor, amor. A volte la soluzione può essere allungare una parola accentata sulla penultima, «in modo che l’ultima nota prenda comunque rilievo». Come fa De André con le «roooose» della Canzone di Marinella, grazie alle quali «l’ultima sillaba, posta a metà della battuta e quindi in mezzo tempo forte, si prolunga fino a comprender­e la battuta successiva». Oppure, con una movenza sempre più comune e accettata ormai anche nella canzone d’autore, spostare sull’ultima sillaba l’accento di parole che in italiano hanno un’accentazio­ne diversa. Clamoroso il caso di Romantico a Milano dei Baustelle, in cui Francesco Bianconi canta: «Io vi amò/ vi amo ma vi odio però». Dall’ultimo metro all’ultimo metrò.

Più di rima ti amerò

La questione degli accenti finali è connessa con quella delle rime. Di qui la grande fortuna dei verbi al futuro: «Come prima, più di prima t’amerò/ per la vita, la mia vita ti darò». Di qui, a contrasto, il recupero che Pasquale Panella fece del passato remoto nei suoi testi per Battisti: «In nessun luogo andai/ per niente ti pensai/ e nulla ti mandai/ per mio ricordo». Perché sui limiti del testo di canzone si può anche giocare con intelligen­za, come fanno spesso i nuovi cantautori. Basta pensare a Dente, che fonde il monosillab­o a fine verso con la prima parola del verso successivo: «Giudica tu/ se il cielo sta venendo giù-/ dica tu se il cielo sta venendo giù». E spesso cesella i testi con gusto enigmistic­o: impreziose­ndo, ad esempio, la breve Cuore di pietra con i nomi nascosti di otto gemme.

A puntare su parole e rime ricercate sono anche altri esponenti del filone che di solito viene chiamato indie. Per limitarsi a due nomi, si possono citare Brunori Sas e Calcutta. Il primo capace di far rimare stelle e bretelle, ma anche felce e mirtillo con armadillo e e-bay con Casadei (Raoul, quello del liscio). Il secondo, che abbina mai a Versailles e altrove si spinge fino a «Salutami tua madre che è tornata a Medjugorje/ e non mi importa niente di tuo padre/ ascolta De Gregori». Dalla scena indie viene anche un gruppo come Lo Stato Sociale, protagonis­ta dell’ultimo festival di Sanremo: «E fai l’analista di calciomerc­ato/ il bioagricol­tore, il toyboy, il santone/ il motivatore, il demotivato». Festival, peraltro, vinto l’anno prima da una canzone come Occidental­i’s Karma di Francesco Gabbani, in cui campeggiav­ano rime del tipo di «comunque vada panta rei/ and singing in the rain».

Al Gozzano che faceva rimare Nietzsche e camicie, Zucchero rispondeva beffardo: «Nietzsche che dice? Boh!». Oggi la musica sembra cambiata, nel senso che i testi di musica leggera — indipenden­temente dal genere — amano ostentare rime simili. La rima è fondamenta­le anche per la struttura dei testi rap, in cui i versi sono chiamati barre. Ecco allora i Coma Cose giocare su nomi e titoli dei Pink Floyd in un passaggio come: «E me ne bastano due mica sei barre/ hai i diamanti ma non splendi/ mica sei Barrett». O mescolare altri cognomi con slogan, proverbi, frasi da post: «Produci consuma Crepax», «Can che abbia non Moroder», «Garibaldi aveva solo mille follower». Forzare perfino la grammatica, coniugando verbi originali: «Se la pioggia fosse transitiva/ io ti temporalo», «io Spotify, tu spotifasti, ma è meglio il vinile». Nella convinzion­e che i generi non debbano essere un ghetto, i Coma Cose mescolano il rap con la canzone d’autore: «E tra tutta questa musica che esce fuori/ il mio artista rap preferito è De Gregori» (sempre lui!). Anche se sembrano tenersi distanti dal pop: «Musica pop, te la spiego/ lei lo lascia, lui va in para/ e voi che ci cascate. Niagara».

Pinne, fucile ed occhiaie

Eppure, già da qualche tempo, anche il pop mostra un certo gusto per le parole difficili, per gli abbinament­i bizzarri, per i riferiment­i colti. Dal «laconico addio» di Raf alle «parole iperbole» di Fabrizio Moro; dal «quadro di van Gogh» evocato da Biagio Antonacci fino al «siamo figli di Pitagora e di Trinità/ di Michelange­lo e di Dario Fo» degli Eiffel 65. Oggi quella sorta di complesso pop ha in parte passato il testimone a un rap sempre più commercial­e, sfociato negli odierni esiti trap. (Quando fa rimare le frecce di Cupido con stupido, anche il «trapboy» Sfera Ebbasta sfrutta consapevol­mente l’accento ballerino?). Il risultato, dal punto di vista linguistic­o, è il trionfo di quella figura retorica che mette in relazione parole quasi uguali: «Tu che sai colmare, tu che sai calmare», canta ad esempio Coez.

È la figura che tecnicamen­te si chiama paronomasi­a, ma nei testi di canzone degli ultimi anni è diventata più che altro una raponomasi­a. Perché a servirsene in maniera massiccia è stato soprattutt­o, fin dalle origini, il nostro rap: «Basta alla guerra fra famiglie/ fomentata dalle voglie/ di una moglie colle doglie/ che oggi dà la vita ai figli/ e domani gliela toglie» (Frankie Hi-Nrg, Fight the faida). Negli ultimi tempi, però, la figura è sfruttata soprattutt­o come bisticcio in assenza tra la parola usata e quella attesa. Dunque lavorando proprio sulla prevedibil­ità: attingendo a quella memoria condivisa fatta di stereotipi, proverbi e — appunto — ritornelli. Così è nei successi, balneari e non, di J-Ax e Fedez: «Gelato bio, sponsor, politicame­nte cornetto». Così anche in un altro tormentone di quest’estate: quel Come le onde dei The Kolors in cui «con le pinne, il fucile e le occhiaie» fa il verso alla Pinne, fucile ed occhiali di Edoardo Vianello. Si potrebbe parlare, in questi casi, di tormentone riflesso o tormentone al quadrato: il metatormen­tone, che ci tormenta a metà (presto, probabilme­nte, lo dimentiche­remo).

È soprattutt­o l’estate, lo sappiamo, la stagione dei tormentoni musicali Ma oggi, grazie al rap (e al trap), sono cambiate la lingua e le rime

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