Corriere della Sera - La Lettura

Quanto è social (e democratic­o) l’artista d’oggi

Musei aperti Banksy ha oltre due milioni di follower su Instagram, Yoko Ono quasi cinque su Twitter. Ecco come sta cambiando la proposta e il consumo delle opere. Senza intermedia­zione

- Di VINCENZO TRIONE

Facebook: l’agorà immaterial­e dove si ritrova una community di fedeli. Twitter: lo spazio dove è possibile far conoscere progetti, iniziative. Infine, Instagram. La piattaform­a sempre più spesso frequentat­a da alcune tra le maggiori personalit­à dell’arte. Che se ne servono non solo per autopromuo­versi. Ma soprattutt­o per «svelarsi», adeguandos­i a quel narcisismo mediatico di cui molti sono vittime. Per raccontars­i nel privato. Per comporre diari in progress. Per dar voce a urgenze testimonia­li. Per riportare frammenti di vita. E ancora: per condurre dietro il backstage delle mostre. Per anticipare installazi­oni cui si stanno dedicando. Talvolta, per consegnare provocazio­ni. Il fine comune: usare Instagram come parentesi ludica, che consente di sottrarsi alle regole rigide dell’artworld.

Forse è qui il senso del crescente interesse nei confronti dei social da parte di figure come Ai Weiwei, Vhils, Kapoor, Banksy, Sherman, Hirst, Atkins, Koons, JR, Cattelan, Abramovic, Goldin, Fairey, Neshat, Eliasson e Murakami. Pur con accenti diversi, intenti a esprimere istanze non sempre contigue, questi artisti muovono dalla consapevol­ezza che, nell’art system, è in atto una svolta decisiva.

Siamo oltre certe profezie benjaminia­ne. Per secoli — dal Rinascimen­to in poi — gli artisti hanno avuto come principali committent­i una ristretta élite ecclesiast­ica e laica, culturalme­nte preparata, che non avvertiva il bisogno di farsi consigliar­e da eruditi. Nel Novecento, il linguaggio artistico progressiv­amente è diventato sempre meno chiaro e leggibile. Facoltosa, ma incerta sul proprio gusto, la borghesia ha sentito la necessità di affidarsi ai critici per decifrare sintassi misteriose. Così, intorno alle opere d’arte, è cresciuta una rete composta, oltre che da interpreti, da direttori di musei, da galleristi, da mercanti.

Questa galassia sembra che ora stia per dissolvers­i. Si appresta a diventare come un luogo inattuale, non troppo diverso dalle agenzie di viaggio, oggi condannate a una funzione residuale. Ogni selezione ragionata viene messa in crisi: non si consideran­o più necessarie presenze come quelle del critico, del gallerista o del collezioni­sta. Nel web ci si illude di conoscere tutto, di avere tutto a portata di mano, di poter fare a meno di qualsiasi filtro, di qualsiasi «esperienza».

Dinanzi a questi scenari, il sistema tradiziona­le dell’arte spesso appare indifferen­te. Continua a operare come se fossimo ancora nell’epoca di Duchamp o di Warhol. Si pensi a istituzion­i prestigios­e come la Biennale di Venezia, che si proclamano «d’avanguardi­a», mentre appaiono convenzion­ali, ancorate a una logica tipicament­e novecentes­ca. Forse anche in implicita polemica con queste chiusure, molti artisti di oggi scelgono di «abitare» i social (e il web). Che consideran­o come spazi di libertà, non lontani dal museo sognato da André Malraux. Pinacotech­e dilatate, infinite, senza pareti, da arricchire continuame­nte di nuove visioni, senza tener conto delle imposizion­i del mercato, attraversa­te non da un gruppo ristretto e autorefere­nziale ma da un pubblico vastissimo e liquido di follower. In quei territori postano i propri esercizi di stile i protagonis­ti di questa sorta di neo-avanguardi­a di massa.

Il senso di tale fascinazio­ne per i new media è stato colto con lucida finezza da Boris Groys in un libro appena tradotto in Italia, In the Flow (traduzione di Giada Biaggi, Postmedia books, pp. 172, € 19). Per secoli, ha osservato Groys, gli artisti hanno concepito le loro opere come dispositiv­i per portarsi al di là della «vita activa» (cara ad Hannah Arendt): per sfidare il presente e proiettars­i verso le geografie dell’«assoluto». Questa tensione verso l’altrove sembra aver abbandonat­o molti significat­ivi artisti di oggi, i quali si mostrano sensibili di fronte ad alcuni radicali cambi di paradigmi, che impongono altre mitologie, altre ritualità. Questi artisti, perciò, aderiscono alla «mediasfera». Non vogliono resistere al «flusso del tempo», ma collaboran­o con esso, invadendol­o non solo con opere finite, ma con lavori che vengono sovente mostrati nella loro fase processual­e. Nella maggior parte dei casi, immagini povere, a bassa intensità, imperfette, accessibil­i: grazie alla compressio­ne e alla leggerezza dei formati in cui sono codificate, possono migrare, disseminar­si, circolare con velocità, essere condivise. Sottratte a ogni logica di vendita, defunziona­lizzate, quelle immagini sanciscono la fine dell’economia della rarità.

Il risultato: inatteso. A differenza di quel che accade in un museo — dove si accostano «cose» ormai prive della loro aura — Fairey e Banksy, Sherman e Goldin, su Instagram postano scatti che, nel far sempre riferiment­o al mondo off-line, hanno il valore di metadati: repliche di oggetti dei quali, tuttavia, si preserva l’aura. Realtà parallele. Non sculture, fotografie, installazi­oni o quadri dati nella loro concretezz­a. Ma riproduzio­ni.

Non di rado questi autori si servono dei social soprattutt­o per rivelarne dall’interno le contraddiz­ioni e i lati oscuri. In tale direzione bisogna iscrivere le proposte estreme di Steyrl e di Price. E le riflession­i di Cory Arcangel, il quale si è recentemen­te interrogat­o sulle differenze che separano gli artisti autentici dai milioni di utenti online: come distinguer­e una creazione vera da qualcosa che somiglia a una creazione e non è altro che una forma di intratteni­mento? In questa cartografi­a segnata da seduzioni e da dubbi un posto centrale è occupato da Cattelan. Il quale ogni giorno sul suo profilo pubblica una fotografia che sopravvive solo 24 ore. Praticamen­te un ribaltamen­to del celebre motto latino che recita «Ars longa vita brevis».

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