Corriere della Sera - La Lettura
Venezia fu terra di «forestieri» E ora risorge ad Ajaccio
Teatralità, erotismo, dettagli macabri: a Palazzo Fesch, nella città della Corsica, rivive il XVII secolo in Laguna, dove approdarono pittori, non solo italiani, che lì volevano imparare e vendere. Ne nacquero formidabili innesti stilistici
Un intero secolo mancava all’appello della pittura veneziana. La fama della prodigiosa fucina cinquecentesca e delle settecentesche visioni tramandate dal grandangolo di Canaletto e dall’agile tocco di Guardi ha lasciato poco spazio a quanto accadde in Laguna nel Seicento, momento altresì glorioso e dinamico nel resto della penisola. Un museo straniero, per la verità già avvezzo a notevoli rassegne sulla nostra pittura, colma oggi questa lacuna grazie a Philippe Costamagna, direttore di Palazzo Fesch ad Ajaccio, in Corsica, che ha saputo affidare a Linda Borean, Stefania Mason e Andrea Bacchi il non facile compito di mettere in luce questo secolo dimenticato della Serenissima.
Le bellezze artistiche, le allettanti commissioni e la possibilità di mettersi in contatto con eruditi e intellettuali hanno da sempre attirato a Venezia pittori e scultori non solo italiani. Ciascuno ha portato con sé un bagaglio differente e la mostra di Ajaccio, dopo quasi 60 anni dall’ultima rassegna con questo soggetto, insiste su questi formidabili innesti stilistici. Opere forse sottovalutate dai musei francesi, accostate ad altre provenienti da chiese e istituzioni veneziane, risorgono come l’araba fenice seguendo l’intrigante filo rosso imbastito dai curatori.
Già dagli albori del Seic e nto , p a r e c c h i p i t to r i «foresti» avevano scelto di installarsi a Venezia per apprendere ma anche per vendere. Come per dare un ritmo alla rassegna, allestita con bell’incedere di sale dai colori barocchi, il percorso è suddiviso in diverse sezioni tematiche. Oltre alla peste del 1630, che in pochi mesi causò la morte di 150 mila abitanti e che influenzò il soggetto di alcuni pittori, anche la riduzione delle committenze pubbliche fu determinante a favore di una nuova, intensa produzione di opere destinate a un collezionismo esigente e raffinato.
I primi quadri della mostra sono da collegare proprio a committenze private. La Melanconia di Domenico Fetti ebbe ad esempio enorme successo, testimoniato in seguito dalle numerose copie ritrovate. Il pittore, arrivato in Laguna nel 1622 da Mantova, si fece notare e imitare per la pennellata consistente e l’intensa liricità delle sue opere. L’interpretazione della sua enigmatica Melanconia tanto oscilla tra penitenza e struggimento, che più volte è stata interpretata come una Maddalena. L’attento naturalismo con cui il mantovano risolve l’incarnato o i complessi brani di natura morta riusciranno a far scuola ad altri stranieri di passaggio, come il tedesco Johann Liss e il genovese Bernardo Strozzi.
La mostra prosegue portando finalmente a giusti onori Pietro della Vecchia, tra i pochi autentici veneziani presenti. Citato dalle fonti come «scimmia di Giorgione» per l’abilità nel riprodurre o imitare i maestri, l’artista rivela una personalità ben distinta. Oltre alle singolari composizioni con impiumati giocatori di carte, soggetti esoterici e caricature, affronta temi storici e biblici con temperamento e un peculiare gusto macabro. La sua Rosamunda costretta a be
re nel cranio del padre, immortalata davanti a un ardito primo piano bianco e con notevole senso teatrale, voleva certo denunciare gli abusi di potere nella Serenissima.
Le opere raccolte attorno ai due Luca Giordano di proprietà Fesch introducono la corrente dei Tenebrosi rappresentata da Giambattista Langetti, ma anche dal bavarese Carl Loth e da Antonio Zanchi. Arrivati a Genova attorno al 1650, Langetti e gli altri s’impongono per la visione drammatica e naturalistica assorbita da Caravaggio, Ribera e dall’ultimo Tintoretto. I dettagli cruenti con i quali indulgono su viscere e ferite, il realismo che lascia quasi intendere le urla e persino il tanfo della putrefazione, come nella Conversione di Francesco Bor
gia di Pietro della Vecchia, diventeranno paradigmi da seguire per alcuni decenni.
Il panorama della pittura veneziana di questo secolo è comunque ampio. Accanto ai precedenti episodi tragici, che non di rado sconfinavano anche nell’ambigua sensualità di storiche eroine, quali Lucrezia o Cleopatra, ecco che i curatori propongono una serie di capolavori che rappresentano il cuore pulsante della pittura locale in quegli anni. Tra il classicismo del Padovanino, e le formidabili scivolate materiche di Liss e Fetti, arriva il «Prete genovese», ossia Bernardo Strozzi, rocambolescamente giunto in Laguna da Genova nel 1630. La sua arte, nutrita da Rubens, van Dyck e Veronese, lascia tracce memorabili nella tavolozza e nelle composizioni di buona parte degli artisti che gravitavano nell’orbita dei committenti locali.
Nell’interessante sezione con le opere dedicate alle Allegorie, argomento richiesto da un largo pubblico di collezionisti per le diverse interpretazioni iconografiche di temi trasversali, svettano l’Allegoria della Fama di Strozzi e quella
del Tempo di Guido Cagnacci. Quest’ultima, di rara sensualità, aiuta a comprendere le più modeste ma altrettanto voluttuose allegorie di Pietro Liberi.
Oltre a una bella serie di ritratti, in cui eccelle ancora una volta Strozzi ma anche Tiberio Tinelli con un notevole ritratto di Carlo Ridolfi, la mostra è completata da numerose splendide sculture, tra cui il busto del cardinale Pietro Valier di Bernini e due mirabili allegorie della Primavera e dell’Inverno del genovese Filippo Parodi, chiamato a Venezia nel 1678. La mostra termina, in maniera significativa ma anche cronologica, con l’Allegoria della Francia nelle vesti di
Minerva, capolavoro con il quale Sebastiano Ricci chiedeva nel 1718 l’ammissione all’Académie Royale de peinture et de sculpture di Parigi.