Corriere della Sera - La Lettura
Un buon film si vede dai titoli
Maestri Kyle Cooper ha inventato 350 sigle di testa: da «Seven» a «Braveheart» alle saghe Marvel Premi A Locarno riceverà il Vision Award. «Il mio compito? Calare lo spettatore subito nella storia»
Dimenticate pure il film ma ricordate i titoli di testa, dice lo slogan, con paradosso ingranato, dei grandi designer che curano appunto i titoli, vera presentazione e voucher con cui, si dice, potete abbassare o annullare la vostra soglia di incredulità, diventare preda della fantasia del regista.
A Locarno la sera del 5 agosto, nella Piazza Grande da ottomila posti cinefili, durante il 71° Festival del cinema, il direttore Carlo Chatrian consegnerà a Kyle Cooper il Vision Award per aver immaginato, diretto, prodotto — quest’ultima attività con la società Prologue Films fondata nel 2003 — in trent’anni di carriera oltre 350 titoli di testa (a volte confida di aver fatto di più: «Ho diretto alcune scene live action di Seven e alcune seconde unità di film impegnativi»).
Ma il suo forte sono i titoli: «Spesso legati alla prima scena del film, a volte intesi come poster o addirittura come metafora del senso dell’opera». Come quelli delle gettonatissime saghe Marvel (è suo il logo animato della società di fumetti), dei Batman, degli Avengers, di Hulk, degli Iron Man e delle Mummie, e poi le Mission Impossible, e Braveheart, fino ad alcune serie di successo come The Walking Dead, Feud e l’imminente Death Stranding. «Devo riuscire a calare lo spettatore subito nell’atmosfera della storia, in modo che non pensi ad altro e che sia felice di aver fatto la sua scelta», dice Cooper che di recente ha anche varcato la soglia di videogiochi e pubblicità.
Non gli mancano attestati: dopo i titoli di Seven, thriller con Brad Pitt e Morgan Freeman, il «New York Times Magazine» scrisse che «era una delle più importanti innovazioni nel design degli anni Novanta». Anche all’autore piacciono ancora ed è lusingato che siano stati, nel loro impasto inconscio di forbici, spilloni, fogli di album, pezzi di pellicola e d’album e rasoi, pagine con parole cancellate alla Isgrò, una turbata fonte d’ispirazione: «Quando lavoravo a Seven era il momento giusto, era l’inizio della democratizzazione della motion graphic, situazione mondiale perfetta che non succederà mai più».
Carlo Chatrian, razionalizza così per «la Lettura»: «Cooper è uno degli artisti che più hanno influenzato l’immaginario contemporaneo. Le sue centinaia di creazioni sono state le porte di accesso a film iconici e amati. Nei suoi titoli, sperimentazione e ricerca grafica, dettagli rubati a microcosmi spesso invisibili e creazioni al computer convivono rompendo le barriere tra artigianato e industria, cinema d’autore e popolare». Urge intuire i bisogni immaginifici: «Ogni film ha un problema diverso da risolvere», quasi una magia. Non per nulla Cooper è nato ve- nerdì 13 (luglio 1962) a Salem, nel Massachusetts, terra di streghe come spiega Arthur Miller nel Crogiuolo. Ma lui è riuscito a evitare il rogo pur avendo trascorso l’infanzia a disegnare schizzi di mostri e vedere film horror (perciò sarà pronto a titolare la serie American Horror Story).
Il «Los Angeles Magazine», senza freni inibitori, ha scritto che Cooper è il Leonardo dei titoli di testa. Certo, la sua sensibilità di graphic designer ha tratto il massimo della creatività tipografica dei caratteri, sempre in movimento, in fieri, in caduta libera e verticale, imprigionan- do le lettere nelle ragnatele di Iron Man o nelle fasce delle mummie egizie. Ha proseguito così il lungo, geniale lavoro di un suo grande predecessore, Saul Bass (potremmo chiamarlo, per parità di genere, Michelangelo) presente nei titoli di Preminger e di Hitchcock, tanto che si dice abbia contribuito non poco alla famosa scena della doccia. Si arriva a Scorsese (firmando le ultime opere con la moglie Elaine), quando la geometria lascia spazio alle suggestioni dell’acqua ( Cape Fear). «Dissi io a Scorsese che Bass era ancora operativo e così persi il lavoro, ma in seguito lo riguadagnai: lo ammiravo, amo il linguaggio grafico, ma il mio vero maestro fu Robert Greenberg. Poi io ero in sintonia con tutti i registi. L’importante è avere un’idea: le idee sono denaro».
Saul Bass, con l’essenziale contributo di musicisti come Elmer Bernstein o Bernard Herrmann, fu il re della kinetic typography per cui ogni geometria era fatta per crollare, ogni linea per essere spezzata, ogni tondo per venire spaccato, come il mappamondo di Questo pazzo pazzo pazzo pazzo mondo: indimenticabili i titoli di Psycho con implacabili barre orizzontali che si spezzano, quelli a murales di West Side Story, quelli di Intrigo internazionale con le lettere appese di traverso al riflesso dei grattacieli (Cooper lo ricorda in Panic Room) e quelli meravigliosi di La donna che visse due volte: la cinepresa viaggia sul volto di Kim Novak inserendosi poi come uno zombie dentro la pupilla e nella cavità dell’occhio in cui trova materia d’inconscio.
Nei titoli per Feud, Cooper si è di certo ricordato del suo predecessore che diceva: «Il design è un pensiero che diventa materia visiva». La storia ci ricorda questo: negli anni Cinquanta-Sessanta, zona pop Warhol, i titoli sono affidati alle colorate, buffe variazioni grafiche, ai cartoon, silhouette in controluce, mani, braccia, gambe e corpi stilizzati destinati a rompersi e cadere nel vuoto come birilli, giocattoli, marionette ( L’uomo dal braccio d’oro, Anatomia di un omicidio, la mano da scultura romana di Spartacus), orgia di simbolismi anche liberty (fiori che sbocciano nei titoli di Età dell’innocenza); poi inizia a scorgersi il contesto, visioni iniziali di folle in cammino, di auto in coda, incipit tra i più gettonati di tutto il cinema americano e incubo del primo periodo metropolitano da King Vidor in poi. Ma attenti all’angoscia dell’uomo: in Toro scatenato Cooper ha mostrato l’immagine al ralenti di La Motta saltellante come in un balletto sul ring in bianco e nero. «In fondo i titoli devono già raccontare una storia, a volte diventano la prima scena del film stesso — dice Cooper — io ammiro molto Bass, il gatto nero che avanza in testa e coda ad Anime sporche è straordinario, ma Paul Rand, con cui ho studiato alla Yale School of Art laureandomi con una tesi su Eisenstein, è stato il padre del graphic design americano. Sono stato influenzato dai titoli di Stephen Frankfurt per Il buio oltre la siepe in cui c’erano i sintomi della storia di Harper Lee, il senso del passato, gli oggetti grigi di memoria, orologi soprattutto come nel Posto delle fragole bergmaniano. I titoli sono il prologo del film».