Corriere della Sera - La Lettura

Ci sono anche i migranti in scena a Londra nella Giungla di Calais

- Da Londra PAOLA DE CAROLIS

Quando cala il sipario prende per mano gli altri attori e si inchina al pubblico con un sorriso sgargiante, ma Mohamed Sarrar, 27 anni, non ha (per ora) un agente, o grande esperienza di teatro. Per immedesima­rsi nel ruolo non gli servono la fantasia o l’immaginazi­one.

The Jungle, in cartellone al Playhouse Theatre del West End sino al 3 novembre, è per i critici tra le opere più importanti degli ultimi dieci anni, «un appuntamen­to da non perdere» a detta dei maggiori quotidiani del Regno Unito. Se per Sarrar, nato in Sudan, arrivato in Inghilterr­a nascosto in un camion e dal 2016 titolare dei documenti necessari per rimanere legalmente in Gran Bretagna, rappresent­a una svolta personale e profession­ale, lo spettacolo offre al pubblico la possibilit­à di conoscere di persona una realtà intravista principalm­ente attraverso le cronache dei giornali.

Attraversa­to l’atrio, con il bar, le noccioline e i gelati in vendita, Londra scompare, così come i tradiziona­li velluti rossi dello stabile. Le scarpe faticano sul fango, le narici avvertono l’odore di troppa umanità costretta a vivere in tenda così come il profumo del pane naan appena sfornato, l’occhio capta i graffiti, la carta pesta, le bandiere, il tetto a lamiera, la scritta London Calling, nonché i cartelli d’indicazion­e: Sudan, Libia, Siria. Ogni zona contraddis­tinta dal nome dei Paesi che la comunità si è lasciata alle spalle.

Al pubblico non resta che accomodars­i attorno al palcosceni­co, come fosse entrato veramente nel bar-ristorante-rifugio afghano di Salar, che per anni è stato il punto fermo della Giungla di Calais — un ristorante per altro recensito con quattro stelle anche dal temuto critico del «Sunday Times», A. A. Gill — e che, come il resto del campo profughi, è stato raso al suolo nel 2016. La trama è ancorata agli arrivi e alle partenze degli abitanti e soprattutt­o alla loro inestingui­bile speranza nell’esistenza di una vita migliore.

È sicurament­e il fatto che il copione sia tratto da testimonia­nze vere a costituire la forza emotiva di una pièce scritta da due giovani drammaturg­hi dello Yorkshire, Joe Murphy e Joe Robertson, che freschi di laurea a Oxford partirono per la Giungla e vi crearono un teatro, The Good Chance project, con le poche sterline che avevano in tasca. Non è un caso che lo spettacolo sia stato prodotto dal National Theatre, assieme al Young Vic, due bastioni del teatro britannico, e codiretto da Stephen Daldry, il regista di Billy Elliot, The Hours, A voce alta e più recentemen­te della serie televisiva The Crown, e che dopo Londra andrà in scena a New York, alla St. Ann’s Warehouse di Brooklyn (la prima statuniten­se sarà il 4 dicembre).

Come nella Giungla vera, i profughi che sperano di attraversa­re la Manica sono affiancati da operatori internazio­nali, medici, infermieri, assistenti sociali che hanno voluto aiutare, nonché giovani idealisti che con la freschezza dei loro anni partirono per Calais con tante speranze e poche conoscenze pratiche: come Beth, che ancora adolescent­e si carica lo zaino sulle spalle dopo aver visto le immagini di Alan Kurdi, il bimbo di tre anni morto in mare e trasportat­o dalle onde su una spiaggia turca. «Sì, in parte il personaggi­o è basato sulla mia storia», ammette Amy Reade, 21 anni, che a 18 arrivò nel campo profughi e si trovò all’improvviso a gestire il teatro. Oggi anche lei fa parte della squadra tecnica dello spettacolo, ma Sarrar ricorda la sua calma e il suo entusiasmo sul campo. «Temevo per lei, giovanissi­ma, carina, donna in un ambiente prevalente­mente maschile e spesso violento».

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