Corriere della Sera - La Lettura
UN AMORE DISORDINATO
Finalmente Sa-jin aveva l’appartamento soltanto per sé. Si alzò in tutto il suo metro e ottantacinque di altezza e si stiracchiò. Aveva un corpo da nuotatore che manteneva facendo ginnastica ogni mattina alle cinque, i capelli tagliati cortissimi di un nero-blu, il naso reso meno piatto dal chirurgo. Non era più un adolescente allampanato sopravvissuto alle scuole private e alla loro tirannia nei confronti degli atleti. I suoi occhi stanchi erano infossati e avevano lo sguardo di un uomo che notava solo ciò che voleva. Le rose che aveva comprato ieri per fare una sorpresa a Seong-ah stavano già appassendo. C’era lavoro da fare.
Iniziò dalla cucina. Lavò i piatti che lei aveva lasciato nel lavandino, poi pulì il piano di lavoro. Raccolse il bucato steso. I suoi indumenti erano sobri, di colori neutri. Quelli di lei di un discreto motivo a macchie di leopardo, verde lime, degli slip color porpora che aveva acquistato durante la loro luna di miele a Bali. Se li portò al naso per un momento, poi li mise da parte e cominciò a piegare tutto.
Piegare lo calmò. Per lasciarsi questi piaceri quotidiani si era rifiutato di prendere una persona di servizio. «Sa-jin», gli aveva detto una volta Seong-ah cautamente, «se vuoi che io lavori, avremo bisogno di aiuto. Con i tuoi standard impossibili...».
Seong-ah era avvocato ed era la prima donna coreana che aveva incontrato a Singapore. Amavano tutti e due Ionesco più di Beckett, il whisky più del vino francese. Lui era serio, mentre lei prendeva la vita con leggerezza, lui era prudente mentre lei era spontanea, così finirono inevitabilmente per frequentarsi. Lei somigliava alle pallide bellezze coreane che lui idealizzava: rispettose degli anziani, dedite alla famiglia, generose, attente agli altri. Pronunciava le parolacce scandendole lettera per lettera. Dopo un po’ cominciarono a passare i fine settimana nel suo appartamento.
«E se i tuoi genitori ti chiamano la sera tardi?», le chiese. Odiava essere preso per uno poco serio.
Lei scrollò le spalle. «Sono dei coreani occidentalizzati», rispose Seong-ah, o Susan come la chiamavano i colleghi. Era cresciuta a Seattle, a Basilea, al Cairo, a Seul. Come lui, aveva passato vent’anni, i due terzi della sua vita, all’estero. Diversamente da lei, lui era stato spedito in una scuola privata del New England. Poco dopo essere tornato a Seul, l’avevano trasferito per lavoro a Singapore.
Dopo aver riposto i suoi indumenti nel cassettone e quelli di lei in valigie, ristabilì la simmetria nella scarpiera svuotata. Raddrizzò le tende, poi spazzolò i tappeti in modo che il pelo fosse tutto ordinatamente piegato verso destra. Asportò la polvere invisibile dal tavolino del soggiorno, lavò i vetri delle finestre e delle porte su entrambi i lati, potò le piante sospese.
L’appartamento si stava avvicinando alla perfezione. Finalmente lo spazio era libero dalle infinite imposizioni di lei. Aveva ingenuamente pensato che il matrimonio equivalesse al «da allora vissero felici e contenti». Invece lei appendeva gli abiti come veniva, usava il coltello per il burro per tagliare le verdure, lasciava le lenzuola spiegazzate e scompigliava la sua disciplina. Raccolse le cianfrusaglie di lei, il temperamatite a forma di Torre Eiffel, le tazze con le decorazioni più disparate, tutto quello che le aveva più volte suggerito di buttare via. Odiava il kitsch, perché non lo capiva? Tolse i magneti dal frigo, l’alfabeto magnetico sparpagliato sulla porta del frigo, le ultime tracce di lei.
Finalmente l’appartamento appariva più dignitoso, il tipo di ambiente che aveva desiderato quando viveva nel puzzolente dormitorio studentesco. Gli oggetti artistici e i libri che aveva raccolto per studio sugli scaffali di mogano — perché l’arte e i libri dovevano essere contemplati, non goduti — non sarebbero più stati spostati. Infine si avvicinò al davanzale della camera da letto.
Un alterco. Come altro avrebbe potuto definirlo? Un triangolo di sangue secco sul braccio segnava il punto in cui lei lo aveva morso. Era tornato un giorno prima da un viaggio d’affari a Hong Kong con un mazzo di rose nascosto dietro la schiena e aveva trovato gli abiti di lei sparsi per tutta la camera da letto. Una piramide di sciarpe sul suo letto, un paio di collant sul suo cassettone, una serie di scarpe — scarpe! — sul suo pavimento. Era stato via una settimana, e si era allargata fin troppo. «Pensavo che il tuo aereo arrivasse domani», disse lei, tirandosi subito su dal pavimento.
Allora l’aveva disprezzata. Aveva disprezzato i suoi capelli appuntati disordinatamente con un enorme spillone di legno, la camicia troppo grande che la faceva sembrare una tenda. Lei saltellava su e giù per raccogliere un reggiseno, una fotografia. Lui mise le rose in un vaso. La stanza stava lentamente affondando sotto il peso delle cose di lei. Contò fino a dieci; respirò profondamente, ma alla fine non riuscì a trattenersi. Prese il mucchio di vestiti dal pavimento e lo gettò dalla finestra al ventesimo piano nella notte senza stelle.
«Sono miei! Sono io che li ho pagati! Non tu!», strillò, e lo colpì con i piccoli pugni duri. Lui fu sul punto di scusarsi. Lei di solito era tutto un sorriso, era una delle persone più felici che conosceva e questo lo sorprende-