Corriere della Sera - La Lettura
Più Stato in economia? Una ricetta avvelenata
Il capitalismo dei nostri giorni è davvero in pessime condizioni. Il successo di critica che sta raccogliendo l’ultimo libro di Mariana Mazzucato ne è una prova: non certo la maggiore, ma significativa. Da quando è stato pubblicato, a fine aprile, The Value
of Everything (in uscita a settembre da Laterza con il titolo Il valore di tutto) è stato recensito e commentato diffusamente, in genere giudicato uno scritto «che stimola il pensiero». Ciò, nonostante il fatto che non apra nuovi campi di analisi e proposta, ma anzi offra letture dell’economia conosciute e discusse. È che il suo punto di forza sta proprio nello sviluppare una critica, giustificata, dei caratteri assunti dal capitalismo globale: questo piace anche se non fa fare molti passi avanti. Il lavoro della professoressa Mazzucato — insegna allo University College London, dove dirige l’Institute for Innovation and Public Purpose — è notevole per ampiezza, come suggerisce il titolo. Di base, sostiene che nelle economie occidentali — si concentra su quelle americana e britannica — ci sono soggetti che creano valore e ce ne sono sempre più che non lo creano, ma se ne appropriano: in testa, la finanza. Sostanzialmente produttori e profittatori. Per arrivare a dimostrare questa realtà, Mazzucato dedica una parte del libro alle teorie sulla creazione del valore, dai mercantilisti a Adam Smith, da Karl Marx ai neoclassici. Con un favore non celato per la lettura oggettiva del valore, cioè quella degli economisti classici che si concentravano sulla sfera della produzione, opposta a quella soggettiva, oggi prevalente, nella quale il focus è sulle preferenze dei consumatori, sul mercato.
Successivamente, l’economista italo-americana si dedica ai diversi metodi di misurazione del Prodotto interno lordo (questione di notevole rilievo teorico), sull’enorme finanziarizzazione delle economie e sull’innovazione. Nella sua lettura, sia la grande finanza (le banche, gli hedge fund, i fondi di private equity e via dicendo) sia i grandi innovatori (Google, Facebook, Amazon, Uber, Airbnb) creano poco o niente valore, ma hanno la potente capacità di appropriarsi del surplus che altri hanno prodotto. Di fatto, rendite. Quelle finanziarie date dall’enorme ruolo assunto dal movimento complesso del denaro e dei suoi prodotti. Quelle della Silicon Valley dall’appropriazione, da parte di imprenditori e capitalisti di ventura molto brillanti e tempisti, dei risultati innovativi scoperti e sviluppati in gran parte dalla ricerca pubblica, siano state la Nasa, la Cia o altre agenzie dello Stato americano nel settore farmaceutico. Mazzucato conclude che per ottenere queste rendite il capitalismo moderno ha costruito e affermato una «narrazione» nella quale il settore pubblico è considerato inefficiente, corrotto, avversario della crescita e dell’economia privata.
Una lettura della realtà che a suo parere va ribaltata, per affermare che il contributo dello Stato all’innovazione è essenziale (argomento che già aveva sviluppato nel libro precedente che l’ha resa famosa, Lo Stato innova
tore) e va retribuito. Mazzucato propone una politica industriale nella quale lo Stato ha un ruolo centrale, riconosciuto e in qualche modo da remunerare anche al di là delle tasse, nel creare innovazione in certi settori. Si tratta, da parte dei politici soprattutto, di mettere da parte la fiducia nei «meccanismi di mercato» e anzi intervenire per dare una direzione dall’alto all’economia. «Possiamo — scrive — formare ( fashion) i mercati in modi che producano risultati desiderabili come una “crescita verde” o una società più “solidale” ( caring) ». Un dirigismo di Stato non solo già a lungo discusso in passato, ma provato in molti Paesi con risultati che è difficile ritenere brillanti: la differenza, se ce n’è una, è che Mazzucato propone di farlo per la strada dell’innovazione, un modo da XXI secolo per dare agli Stati e ai governi il potere di scegliere i vincitori nell’economia. Una certa vicinanza al modello cinese. O forse a quello che vorrebbe Luigi Di Maio per la Cassa depositi e prestiti in Italia.
Per quanto il capitalismo di oggi non si presenti con un bell’aspetto alla maggioranza dei cittadini, l’impressione è che le proposte di Mazzucato — cioè più Stato perché è esso che sostiene l’innovazione — possano peggiorare la situazione. Nel libro, l’economista dedica, per criticarla, alcune pagine alla teoria della Public
Choice e all’economista premio Nobel James Buchanan. Si tratta di una teoria, nell’interpretazione di Buchanan, che in una considerevole misura può spiegare come il capitalismo moderno, a cominciare da quello americano, abbia perso la sua spinta propulsiva e popolare per diventare un affare dominato da non molti attori potenti. La Public Choice Theory sostiene che i grandi interessi privati hanno la capacità di «catturare» il settore pubblico e il governo attraverso la corruzione, il clientelismo, il nepotismo, la lobby, la condivisione degli interessi, i finanziamenti alla politica, la collaborazione pelosa con le agenzie pubbliche, i finanziamenti dello Stato, gli appalti e le porte girevoli tra Big Business, Big
Banks e politica.
Si tratta di una descrizione, questa, che si avvicina parecchio alla realtà degli Stati Uniti dell’ultimo ventennio: una situazione nella quale l’intreccio tra Stato e grandi interessi economici tende (relativamente) a tenere fuori dalla competizione o a penalizzare una platea larga di concorrenti se non in settori del tutto nuovi (come quelli della Silicon Valley, che però vengono presto cooptati nel sistema). Una fascia di grandi banche e corporation «troppo grandi per fallire» legate a filo triplo con il governo e i suoi apparati, con top manager che possono darsi remunerazioni straordinarie al riparo dalla protesta degli azionisti e dei dipendenti. È la parziale soppressione del mercato, di quella competizione che ha reso grande e forte il capitalismo americano e ha fornito a Washington le risorse e il quadro di regole per andare sulla luna, per sviluppare la ricerca militare, per gettare le basi di internet e così via con l’innovazione. È la separazione che ha funzionato: da una parte il mercato capitalista, dall’altra lo Stato.
Le proposte di Mazzucato per stringere ancora di più la relazione tra Stato ed economia spingerebbero invece al peggioramento di questo intreccio già oggi enormemente regressivo. La professoressa non ha risposto alle richieste di intervista per questo articolo. In un colloquio con il settimanale britannico «Spectator» — nel quale viene definita «nuovo campione del big-state ca
pitalism» — va però oltre l’articolato tessuto del libro. In modo probabilmente provocatorio — risponde a un giornale decisamente conservatore — alla domanda di quale pensa dovrebbe essere la quota dello Stato britannico sul Pil, oggi al 42%, risponde «ovunque tra il 50% e il 100%». Si dice poi favorevole a più tasse sui capital
gain e a un’imposta sulle transazioni finanziarie. «Potremmo anche tornare a un vecchio sistema di tasse — aggiunge — quando l’imposta massima era al 90%, quella è sempre un’opzione». Per evitarlo, dice, occorre che lo Stato catturi alcuni dei benefici che produce quando crea innovazione. « Quite scary », piuttosto sinistro, commenta l’intervistatore. Il libro è interessante. E, in effetti, stimola riflessioni. Una soprattutto. Se il capitalismo — nei modelli anglosassone, europeo, russo, turco, cinese — continua sulle strade di oggi — sempre meno mercato e opportunità e sempre più oligarchie al vertice — proposte come quella di Mazzucato potrebbero prendere piede. Quite scary.
Nonostante il successo di critica, il libro «The Value of Everything» di Mariana Mazzucato propone terapie niente affatto nuove per i mali del capitalismo Il problema più grave è proprio l’intreccio tra poteri pubblici e privati: un conflitto d’interessi permanente che si può soltanto aggravare adottando misure dirigiste già sperimentate a lungo, con risultati fallimentari, nel corso del Novecento