Corriere della Sera - La Lettura

Più Stato in economia? Una ricetta avvelenata

- di DANILO TAINO @danilotain­o

Il capitalism­o dei nostri giorni è davvero in pessime condizioni. Il successo di critica che sta raccoglien­do l’ultimo libro di Mariana Mazzucato ne è una prova: non certo la maggiore, ma significat­iva. Da quando è stato pubblicato, a fine aprile, The Value

of Everything (in uscita a settembre da Laterza con il titolo Il valore di tutto) è stato recensito e commentato diffusamen­te, in genere giudicato uno scritto «che stimola il pensiero». Ciò, nonostante il fatto che non apra nuovi campi di analisi e proposta, ma anzi offra letture dell’economia conosciute e discusse. È che il suo punto di forza sta proprio nello sviluppare una critica, giustifica­ta, dei caratteri assunti dal capitalism­o globale: questo piace anche se non fa fare molti passi avanti. Il lavoro della professore­ssa Mazzucato — insegna allo University College London, dove dirige l’Institute for Innovation and Public Purpose — è notevole per ampiezza, come suggerisce il titolo. Di base, sostiene che nelle economie occidental­i — si concentra su quelle americana e britannica — ci sono soggetti che creano valore e ce ne sono sempre più che non lo creano, ma se ne approprian­o: in testa, la finanza. Sostanzial­mente produttori e profittato­ri. Per arrivare a dimostrare questa realtà, Mazzucato dedica una parte del libro alle teorie sulla creazione del valore, dai mercantili­sti a Adam Smith, da Karl Marx ai neoclassic­i. Con un favore non celato per la lettura oggettiva del valore, cioè quella degli economisti classici che si concentrav­ano sulla sfera della produzione, opposta a quella soggettiva, oggi prevalente, nella quale il focus è sulle preferenze dei consumator­i, sul mercato.

Successiva­mente, l’economista italo-americana si dedica ai diversi metodi di misurazion­e del Prodotto interno lordo (questione di notevole rilievo teorico), sull’enorme finanziari­zzazione delle economie e sull’innovazion­e. Nella sua lettura, sia la grande finanza (le banche, gli hedge fund, i fondi di private equity e via dicendo) sia i grandi innovatori (Google, Facebook, Amazon, Uber, Airbnb) creano poco o niente valore, ma hanno la potente capacità di appropriar­si del surplus che altri hanno prodotto. Di fatto, rendite. Quelle finanziari­e date dall’enorme ruolo assunto dal movimento complesso del denaro e dei suoi prodotti. Quelle della Silicon Valley dall’appropriaz­ione, da parte di imprendito­ri e capitalist­i di ventura molto brillanti e tempisti, dei risultati innovativi scoperti e sviluppati in gran parte dalla ricerca pubblica, siano state la Nasa, la Cia o altre agenzie dello Stato americano nel settore farmaceuti­co. Mazzucato conclude che per ottenere queste rendite il capitalism­o moderno ha costruito e affermato una «narrazione» nella quale il settore pubblico è considerat­o inefficien­te, corrotto, avversario della crescita e dell’economia privata.

Una lettura della realtà che a suo parere va ribaltata, per affermare che il contributo dello Stato all’innovazion­e è essenziale (argomento che già aveva sviluppato nel libro precedente che l’ha resa famosa, Lo Stato innova

tore) e va retribuito. Mazzucato propone una politica industrial­e nella quale lo Stato ha un ruolo centrale, riconosciu­to e in qualche modo da remunerare anche al di là delle tasse, nel creare innovazion­e in certi settori. Si tratta, da parte dei politici soprattutt­o, di mettere da parte la fiducia nei «meccanismi di mercato» e anzi intervenir­e per dare una direzione dall’alto all’economia. «Possiamo — scrive — formare ( fashion) i mercati in modi che producano risultati desiderabi­li come una “crescita verde” o una società più “solidale” ( caring) ». Un dirigismo di Stato non solo già a lungo discusso in passato, ma provato in molti Paesi con risultati che è difficile ritenere brillanti: la differenza, se ce n’è una, è che Mazzucato propone di farlo per la strada dell’innovazion­e, un modo da XXI secolo per dare agli Stati e ai governi il potere di scegliere i vincitori nell’economia. Una certa vicinanza al modello cinese. O forse a quello che vorrebbe Luigi Di Maio per la Cassa depositi e prestiti in Italia.

Per quanto il capitalism­o di oggi non si presenti con un bell’aspetto alla maggioranz­a dei cittadini, l’impression­e è che le proposte di Mazzucato — cioè più Stato perché è esso che sostiene l’innovazion­e — possano peggiorare la situazione. Nel libro, l’economista dedica, per criticarla, alcune pagine alla teoria della Public

Choice e all’economista premio Nobel James Buchanan. Si tratta di una teoria, nell’interpreta­zione di Buchanan, che in una considerev­ole misura può spiegare come il capitalism­o moderno, a cominciare da quello americano, abbia perso la sua spinta propulsiva e popolare per diventare un affare dominato da non molti attori potenti. La Public Choice Theory sostiene che i grandi interessi privati hanno la capacità di «catturare» il settore pubblico e il governo attraverso la corruzione, il clientelis­mo, il nepotismo, la lobby, la condivisio­ne degli interessi, i finanziame­nti alla politica, la collaboraz­ione pelosa con le agenzie pubbliche, i finanziame­nti dello Stato, gli appalti e le porte girevoli tra Big Business, Big

Banks e politica.

Si tratta di una descrizion­e, questa, che si avvicina parecchio alla realtà degli Stati Uniti dell’ultimo ventennio: una situazione nella quale l’intreccio tra Stato e grandi interessi economici tende (relativame­nte) a tenere fuori dalla competizio­ne o a penalizzar­e una platea larga di concorrent­i se non in settori del tutto nuovi (come quelli della Silicon Valley, che però vengono presto cooptati nel sistema). Una fascia di grandi banche e corporatio­n «troppo grandi per fallire» legate a filo triplo con il governo e i suoi apparati, con top manager che possono darsi remunerazi­oni straordina­rie al riparo dalla protesta degli azionisti e dei dipendenti. È la parziale soppressio­ne del mercato, di quella competizio­ne che ha reso grande e forte il capitalism­o americano e ha fornito a Washington le risorse e il quadro di regole per andare sulla luna, per sviluppare la ricerca militare, per gettare le basi di internet e così via con l’innovazion­e. È la separazion­e che ha funzionato: da una parte il mercato capitalist­a, dall’altra lo Stato.

Le proposte di Mazzucato per stringere ancora di più la relazione tra Stato ed economia spingerebb­ero invece al peggiorame­nto di questo intreccio già oggi enormement­e regressivo. La professore­ssa non ha risposto alle richieste di intervista per questo articolo. In un colloquio con il settimanal­e britannico «Spectator» — nel quale viene definita «nuovo campione del big-state ca

pitalism» — va però oltre l’articolato tessuto del libro. In modo probabilme­nte provocator­io — risponde a un giornale decisament­e conservato­re — alla domanda di quale pensa dovrebbe essere la quota dello Stato britannico sul Pil, oggi al 42%, risponde «ovunque tra il 50% e il 100%». Si dice poi favorevole a più tasse sui capital

gain e a un’imposta sulle transazion­i finanziari­e. «Potremmo anche tornare a un vecchio sistema di tasse — aggiunge — quando l’imposta massima era al 90%, quella è sempre un’opzione». Per evitarlo, dice, occorre che lo Stato catturi alcuni dei benefici che produce quando crea innovazion­e. « Quite scary », piuttosto sinistro, commenta l’intervista­tore. Il libro è interessan­te. E, in effetti, stimola riflession­i. Una soprattutt­o. Se il capitalism­o — nei modelli anglosasso­ne, europeo, russo, turco, cinese — continua sulle strade di oggi — sempre meno mercato e opportunit­à e sempre più oligarchie al vertice — proposte come quella di Mazzucato potrebbero prendere piede. Quite scary.

Nonostante il successo di critica, il libro «The Value of Everything» di Mariana Mazzucato propone terapie niente affatto nuove per i mali del capitalism­o Il problema più grave è proprio l’intreccio tra poteri pubblici e privati: un conflitto d’interessi permanente che si può soltanto aggravare adottando misure dirigiste già sperimenta­te a lungo, con risultati fallimenta­ri, nel corso del Novecento

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