Corriere della Sera - La Lettura

La parola nei dintorni di Montale con un interlocut­ore che si traveste

- di DANIELE PICCINI

Ci sono scritture implicite, delicate in cui non solo l’evidenza di ciò che è detto va soppesata, ma l’orlo, il risvolto, la parte sotto. Sembra funzionare così la poesia di Novella Torre, che giunge con Un secolo di febbre alla pienezza della sua vocazione. Per buon tratto del libro si direbbe che l’autrice fiorentina si aggiri nei dintorni di un Montale da antologia: schiocchi, suoni aspri, una petrosità non di maniera ma ontologica, immagini di sperata liberazion­e («Apri il passaggio attraverso la rete»). E poi un parlare sottovoce e definitivo a un «tu» che di continuo si traveste: ora è il padre scomparso da anni, ora l’interlocut­ore principe, che scava buchi dolenti nel petto dell’«io» («tutto s’infossa, perché tu da viva/ che ero, muta mi hai reso e senz’arte»). Ma non è l’imitazione che domina: piuttosto la scoperta di un proprio spazio in cui accogliere il senso che non si possiede e ancora la pazienza di chiudere gli occhi e inaugurare la visione.

Così la trama verbale rivela zone di misteriosa densità e anche la dantesca «gora» che compare più volte (come nota Niccolò Scaffai nella prefazione) sembra sospendere il suo significat­o. Qualcuno entra, prende possesso di questa parola, che non è disabitata come poteva sembrare, ma ospitale, disposta a riconoscer­e ciò che sfugge: «Se non c’è più sangue né succo/ né santi, non mi spavento e niente/ e nessuno è solo».

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