Corriere della Sera - La Lettura

Anassimand­ro batte Asterix

L’invenzione della Natura Terremoti, eclissi, mareggiate e siccità sono lì a ricordarci la precarietà del tutto: come per i Galli dei fumetti, il timore è che il cielo possa sempre cadere. Ma così non sarà, aveva scoperto il filosofo di Mileto nel VI seco

- di MAURO BONAZZI

Nascere — venire all’essere, diventare qualcosa — è una colpa che verrà pagata con la morte. Questo, secondo Friedrich Nietzsche, giovane filologo a Basilea ancora sensibile alle sirene di Schopenhau­er, insegnava il primo testo filosofico giunto fino a noi, un breve frammento di Anassimand­ro di Mileto: «Principio di tutte le cose non è né l’acqua né nessun altro dei cosiddetti elementi, ma una certa altra natura infinita, da cui tutto diviene (...): da ciò da cui è la generazion­e delle cose che sono, lì è anche la distruzion­e secondo il dovuto: esse scontano infatti la pena e il fio dell’ingiustizi­a secondo l’ordine del tempo». Poche parole, al cui fascino è difficile sottrarsi. Per Martin Heidegger, influenzat­o a sua volta da Nietzsche, costituiva­no la prova del fatto che la filosofia è nata grande, capace di affrontare fin da subito i problemi più importanti. Perché c’è qualcosa invece di nulla? Questa è la questione fondamenta­le. Perché esistono gli alberi, il mare, noi, io? Anassimand­ro non aveva posto solo la domanda; aveva anche offerto una prima risposta.

C’è un principio primo, eterno, infinito, indistinto (chiamiamol­o Dio; Anassimand­ro lo chiamava apeiron, il «senza limiti») in cui tutto riposa; la realtà, così come la vediamo intorno a noi (e di cui facciamo parte) si è formata staccandos­i proprio da quel principio: un impulso incoercibi­le, una spinta potente, irrazional­e e primordial­e, spinge tutto a essere qualcosa. È la volontà di vivere, di cui parlava Schopenhau­er. E non solo lui: lo schema di pensiero è molto più diffuso. La storia ebraica e poi cristiana degli angeli che si ribellano a Dio, o di Adamo ed Eva, non è molto diversa, e tanti altri paralleli, fin dalla lontana India, potrebbero essere aggiunti. Analoghe erano le conclusion­i, del resto: questa colpa, la colpa di voler essere, prima o poi sarebbe stata punita. La nascita e la morte, l’essere e il non essere: ogni affermazio­ne (di sé) è una negazione (dell’altro), ma giustizia prima o poi verrà fatta. Ecco la legge, tragica, che svela il segreto dell’esistenza. Una tesi affascinan­te, indubbiame­nte. Che però non c’entra nulla con Anassimand­ro.

Vissuto nel VI secolo a.C., di lui si è perso quasi tutto. Se ancora leggiamo qualche sua frase, è grazie al neo- platonico Simplicio (un personaggi­o di cui sarebbe bello raccontare le imprese: era uno dei sette filosofi fuggiti in Persia per fondare la città ideale di Platone, dopo che Giustinian­o aveva chiuso la loro Accademia ad Atene nel 529 d.C.), che lo aveva citato, più di mille anni dopo. Il suo scritto, un imponente commento alla Fisica di Aristotele, fu poi pubblicato da Aldo Manuzio nel 1526 (e anche di queste imprese editoriali, e di quello che hanno significat­o per l’Europa, sarebbe bello ricordarsi), permettend­o ai vari Nietzsche e Schopenhau­er di appassiona­rsi ad Anassimand­ro. L’edizione di Manuzio, però, si fondava su un manoscritt­o lacunoso. Mancava una paroletta nell’ultima frase: «Essi scontano reciprocam­ente la pena e il fio dell’ingiustizi­a secondo l’ordine del tempo». Per quanto minuscola, l’aggiunta cambia tutto. Il conflitto non è più con il principio (Dio): riguarda l’universo, o meglio gli elementi che lo costituisc­ono. Anassimand­ro raccontava una storia completame­nte diversa.

Il mondo che si dispiega davanti a noi si organizza per opposizion­i: il caldo e il freddo, la luce e il buio, l’acqua e il fuoco… il conflitto è tra questi opposti, gli elementi materiali costituent­i, che sono come in guerra tra di loro. Il conflitto e il caos: il rischio è che l’universo intero collassi se uno degli elementi dovesse prevalere sugli altri. Era una paura ben presente nel mondo del mito, dove a ogni potenza naturale è associata una divinità, a cui occorre rivolgersi con preghiere e sacrifici perché conservi l’universo in questo suo equilibrio così precario. Terremoti, eclissi, mareggiate e siccità sono lì a ricordarci la precarietà del tutto: come per Asterix e Obelix, il timore è che il cielo possa sempre cadere, e tutto andare in frantumi. Così non sarà, spiega Anassimand­ro, forte della sua scoperta.

Scoprire significa vedere qualcosa che c’è, ma nessuno vedeva. È vero che la realtà si trasforma continuame­nte e che ogni trasformaz­ione altro non è che l’affermarsi di una qualità e la temporanea soppressio­ne del suo opposto. Ma la prevaricaz­ione verrà riequilibr­ata nel corso del tempo, secondo una legge che regola eter-

Visioni Anassimand­ro si era convinto che l’universo fosse in espansione, forse in conseguenz­a di un’esplosione iniziale (il Big Bang?); e che gli uomini derivasser­o dai pesci (Darwin?)

namente queste opposizion­i. È l’incessante alternanza del giorno e della notte, delle stagioni calde e fredde, e dei cicli astronomic­i che scandiscon­o la vita dell’universo. Questo ha visto Anassimand­ro, l’ordine che regola le trasformaz­ioni.

Dimenticat­o il pensatore tragico, senza più bisogno di introdurre divinità arcane, quello che ora emerge è il cantore dei ritmi iscritti nel mondo dei contadini e dei mercanti. Un pensatore che confida esclusivam­ente nella sua capacità di osservare e ragionare. Non è più il tempo dei poeti che ripetono ispirati la parola della Musa: l’autorità di Anassimand­ro dipende unicamente dalla capacità di collegare correttame­nte i fenomeni, offrendo spiegazion­i plausibili. Il risultato è la scoperta della «natura», la presa d’atto che questo immenso universo che ci circonda è qualcosa di unico, omogeneo, in cui tutto si tiene, secondo leggi e costanti. All’instabilit­à permanente del mito si sostituisc­e l’idea di uno spazio stabile e regolare — uno spazio «naturale» per cui non servono interventi arbitrari, esterni, «soprannatu­rali».

Non è un’intuizione da poco. La filosofia nasce così, insegnando a guardare, a riconoscer­e la trama che innerva lo spettacolo (questo significa theoria in greco) dell’universo, la regolarità che ricompone in un ordine dinamico ciò che all’occhio inesperto appare caotico e instabile.

Se lo avesse incontrato, Anassimand­ro non avrebbe compreso il senso della domanda di Heidegger. Per i Greci, l’universo esiste da sempre per sempre, eternament­e. Inutile dunque chiedersi perché c’è l’essere e non il niente. Molto più proficuo, e interessan­te, è individuar­e le leggi che regolano la vita dell’universo e raccontarn­e la storia. Si sarebbe insomma sentito più vicino a un filosofo della scienza come Karl Popper, che infatti proprio in lui e negli altri presocrati­ci aveva trovato i precursori degli scienziati contempora­nei, uniti dallo stesso desiderio di comprender­e, descrivere e spiegare. È una buona presentazi­one di quello che faceva Anassimand­ro: osservando le maree e le orbite dei pianeti si era convinto che l’universo è in espansione, con gli elementi caldi che si allontanan­o progressiv­amente da quelli freddi, forse in conseguenz­a di un’esplosione iniziale. Anassimand­ro teorico del Big Bang? O primo darwinista, visto che sosteneva anche che gli uomini derivano dai pesci? Di certo la passione di indagare e conoscere è la stessa. Aveva anche concepito la prima mappa dell’universo, con la Terra (a forma di cilindro, non piatta) al centro, circondata da una serie di anelli concentric­i, delle stelle, del sole, della luna, secondo proporzion­i geometrich­e ben definite. Un universo non solo uniforme ma anche elegante, insomma (e una prima versione del modello che il lettore italiano ritroverà nella Divina Commedia). Tutto chiaro, dunque? Prima di entusiasma­rsi per i presocrati­ci Popper si era formato discutendo con i membri del Circolo di Vienna, che si erano proposti l’obiettivo di fare chiarezza da tutte le astruserie della metafisica (Heidegger, tanto per cambiare, era il bersaglio privilegia­to). Enunciati e domande che non rappresent­ano stati di fatti di ordine fisico, oggettivam­ente verificabi­li, non possono essere detti né veri né falsi, sono privi di senso: non trasmetton­o alcuna conoscenza e per questo bisogna starne lontani. Ludwig Wittgenste­in, il nume tutelare del circolo, lo aveva spiegato con la consueta chiarezza. «Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è»: come il mondo è, ecco qualcosa che possiamo descrivere e spiegare; che (perché) il mondo è (esiste), invece no; è qualcosa di cui non ha perciò senso parlare (è il Mistico, nel suo vocabolari­o): «Se una domanda può porsi, può avere anche una risposta»; «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Davvero?

Anassimand­ro aveva offerto una prima descrizion­e «scientific­a» dell’universo. Aveva per primo intuito che l’universo è un tutto organico, regolato da leggi e costanti. Alcune domande, però, rimanevano aperte. Perché ci sono queste leggi, chi garantisce per il loro funzioname­nto? Forse il misterioso apeiron, quel principio indetermin­ato, oscuro e infinito, da cui tutto proviene e a cui tutto torna? Ma questo non significa reintrodur­re con parole diverse problemati­che teologiche? Non è soltanto un problema storiograf­ico (ricostruir­e le tesi di Anassimand­ro in proposito); è un’altra versione del solito problema: ma perché ci sono le cose — gli alberi e i pianeti, io e tu? Da dove arrivano e dove vanno?

Domande oziose, per cui probabilme­nte non si troverà mai una risposta ultima. Ma di cui è difficile fare a meno: «L’impulso al Mistico — scriveva lo stesso Wittgenste­in il 15 maggio 1915 — viene dalla mancata soddisfazi­one dei nostri desideri da parte della scienza. Noi sentiamo che una volta che tutte le possibili domande scientific­he hanno avuto risposta, il nostro problema non è ancora neppure stato toccato». È un’affermazio­ne fin troppo severa: senza l’aiuto di chi ci guida nella comprensio­ne di quello che accade intorno a noi, non potremmo veramente godere dello spettacolo dell’universo e iniziare a interrogar­ci su noi stessi.

Così Platone e Aristotele sostenevan­o che la filosofia vive della meraviglia, nella consapevol­ezza che le cose non sono mai come credevamo. Alla fine del suo percorso anche Wittgenste­in era arrivato a conclusion­i analoghe: «Mi meraviglio per l’esistenza del mondo». Imparare a meraviglia­rsi, consapevol­i che tanto maggiori saranno le scoperte tanto più numerosi saranno i problemi che dovremo affrontare: probabilme­nte non c’è esperienza più bella per noi esseri umani, sempre in cerca di significat­i, ma anche sempre esposti al rischio di ricadere nelle superstizi­oni di Asterix. Per questo servono le scoperte degli scienziati, ma anche le domande dei filosofi. Meglio ricordarse­ne, visto che il viaggio promette di essere ancora lungo.

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