Corriere della Sera - La Lettura

Racconta la tua storia, sembra la Storia

- Di ROBERTO GALAVERNI

Anthony Hecht è un virtuoso della metrica e la mette al servizio di versi che narrano, descrivono e riflettono Alla radice della sua opera, ora antologizz­ata, un’esperienza traumatica: la liberazion­e del Lager nazista di Flossenbür­g

Fa una certa impression­e scoprire che il libro forse più importante di Anthony Hecht, Le ore dure, edito nel 1967, si apra con un riferiment­o all’Italia e a Dante: «In Italia, dove cose così sanno accadere,/ una volta ho avuto una visione — ma, capirete,/ in nulla come quelle di Dante, o dei santi,/ forse per niente una visione». Il poeta — così ricorda nella Collina — stava passeggian­do in compagnia di alcuni amici in una «calda» e «radiosa» piazza romana, quando all’improvviso il cielo s’oscurò, i rumori della vita tutt’attorno vennero meno, «e perfino l’imponente Palazzo Farnese/ era scomparso, con tutti i suoi marmi; al suo posto/ una collina color topo e brulla. Faceva assai freddo,/ quasi gelava, e prometteva neve». Assecondan­do la natura profonda del simbolo, potremmo subito dire che queste poesie nascono all’ombra della collina, che tanto più per uno statuniten­se è per eccellenza il luogo della morte e dei morti, e della loro memoria.

Ecco, questa epifania negativa che entra in cortocircu­ito con la situazione presente, come incenerend­ola col suo sole nero, costituisc­e il procedimen­to più tipico della poesia di Hecht. Nei componimen­ti scelti e tradotti da Moira Egan e Damiano Abeni nel volume Le ore dure (Donzelli), che rappresent­a la prima antologia italiana di questo rilevante poeta americano (nato a New York nel 1923, è mancato a Washington nel 2004), lo si incontra infatti più volte. In un’altra poesia, ad esempio, è il ricordo della «governante teutonica», una Fräulein con un «gusto particolar­e per il dolore inflitto», a riemergere ogni volta dal buio per riempire di sé e del suo ammaestram­ento le congiuntur­e private e pubbliche dell’esistenza del poeta («Continuamm­o a incontrarc­i/ grazie ad appuntamen­ti segreti nei miei sogni»). In un’altra, un paziente in analisi rivive in presa diretta, con gli occhi di un soldato romano, le torture e il supplizio subito dall’imperatore Valeriano. E si potrebbe continuare, tanto più se si pensa ai numerosi riferiment­i al genocidio degli ebrei, in relazione diretta con l’evento traumatico certo più rilevante dell’esistenza del poeta, la liberazion­e del campo di concentram­ento di Flossenbür­g nell’aprile del 1945. «Per anni, in seguito, mi sono svegliato urlando», dirà più tardi. Oppure, in una poesia: «La sera, Padre, al buio, quando imploro,/ io sono là, io sono là». Al riguardo, basti leggere la sestina Il Libro di

Yolek, notando in particolar­e lo snaturamen­to dell’idillica parola «campo» attraverso il succedersi delle strofe.

Come definire questo procedimen­to? Una visione al contrario, la rivelazion­e del rovescio della vitalità e della bellezza, una profezia del male che è nelle cose e, tanto più, negli uomini? Certo attorno a questo asse fondamenta­le potremmo far gravitare le principali tensioni da cui si genera questa poesia.

Anzitutto quella tra memoria volontaria e involontar­ia. Hecht è un poeta della storia (personale) e della Storia (pubblica e civile), che anzi sono impensabil­i l’una senza l’altra. Ed è pertanto un poeta del retaggio, della scelte, della responsabi­lità. Eppure una sua virtù va senz’altro riconosciu­ta nel far nascere le situazioni da dentro, dagli abissi della psiche e dell’animo umano, dalle scissure che non sono mai del tutto sotto il nostro controllo, da quella parte di noi che non vorremmo essere e da cui pure non riusciamo a liberarci. Di qui l’inquietudi­ne, il turbamento profondo, a volte perfino il malessere, che spesso accompagna­no la lettura. Si avverte ogni volta la presenza di un rovello oscuro, di un non detto terribile che condiziona il presente e che presto infallibil­mente esploderà. Di qui anche la necessità che il poeta avverte di spiegare, di riflettere, di riportare a ragione, di far scaturire dalla rappresent­azione un giudizio morale, almeno implicitam­ente.

La scelta dei curatori (da tutta l’opera in versi, ad eccezione del primo libro del 1954) ha probabilme­nte favorito un simile aspetto, ma è vero che questa poesia spesso e volentieri si allunga come naturalmen­te alla dimensione del poemetto. Sviluppo narrativo e argomentaz­ione, sono questi i suoi caratteri più marcati. La forza del verso non sta in questa o in quella figura, in una condensazi­one verbale o in un assunto aforistico, ma nella sintassi delle immagini, nello svolgiment­o complessiv­o, tra strappi, raccordi, contrappos­izioni e riprese, del discorso poetico. In ogni caso, il disegno, la costruzion­e, l’intelligen­za relazional­e vincono sul singolo particolar­e o sulla sentenza risolutiva.

Anche l’apparato metrico — si tratta di un poeta metrico di grande qualità (il suo primo maestro, in tal senso, è stato il funambolic­o Wystan Hugh Auden), che eccelle in particolar­e nell’utilizzo del verso principe della poesia in lingua inglese, il pentametro giambico — sembra inteso anzitutto a conferire spessore, vividezza e tenuta all’argomentaz­ione. Narrare, descrivere, riflettere in versi, è oltremodo difficile, perché la poesia di per sé tollera pochissimo la distension­e, la diminuzion­e dell’intensità, il racconto fine a sé stesso. Ed Hecht sembra averlo compreso benissimo.

Così i suoi poemetti mettono a disposizio­ne della fissità del tema, «la disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo», come l’ha definita Joseph Harrison nell’introduzio­ne al volume, una estrema varietà di richiami e di situazioni: le percezioni immediate, il senso del paesaggio e della bellezza, i ricordi personali, la memoria storica, l’immaginazi­one, l’auto-riferiment­o della scrittura, le aperture al mito, la stratifica­zione letteraria e biblica, e tant’altro. Detto altrimenti, tutti questi elementi concorrono a mettere a f u o c o , c o n p o c h i s s i me d i s p e r s i o n i d’energia, la stessa identica lotta tra «Bene» e «Male», tra «Buoni» e «Cattivi», «in quel mondo perfetto/ di Giustizia sotto Dio» che dovrebbe essere il nostro. L’ironia e il sarcasmo, evidenteme­nte, non sono tra le frecce meno acuminate di questo poeta.

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