Corriere della Sera - La Lettura
Racconta la tua storia, sembra la Storia
Anthony Hecht è un virtuoso della metrica e la mette al servizio di versi che narrano, descrivono e riflettono Alla radice della sua opera, ora antologizzata, un’esperienza traumatica: la liberazione del Lager nazista di Flossenbürg
Fa una certa impressione scoprire che il libro forse più importante di Anthony Hecht, Le ore dure, edito nel 1967, si apra con un riferimento all’Italia e a Dante: «In Italia, dove cose così sanno accadere,/ una volta ho avuto una visione — ma, capirete,/ in nulla come quelle di Dante, o dei santi,/ forse per niente una visione». Il poeta — così ricorda nella Collina — stava passeggiando in compagnia di alcuni amici in una «calda» e «radiosa» piazza romana, quando all’improvviso il cielo s’oscurò, i rumori della vita tutt’attorno vennero meno, «e perfino l’imponente Palazzo Farnese/ era scomparso, con tutti i suoi marmi; al suo posto/ una collina color topo e brulla. Faceva assai freddo,/ quasi gelava, e prometteva neve». Assecondando la natura profonda del simbolo, potremmo subito dire che queste poesie nascono all’ombra della collina, che tanto più per uno statunitense è per eccellenza il luogo della morte e dei morti, e della loro memoria.
Ecco, questa epifania negativa che entra in cortocircuito con la situazione presente, come incenerendola col suo sole nero, costituisce il procedimento più tipico della poesia di Hecht. Nei componimenti scelti e tradotti da Moira Egan e Damiano Abeni nel volume Le ore dure (Donzelli), che rappresenta la prima antologia italiana di questo rilevante poeta americano (nato a New York nel 1923, è mancato a Washington nel 2004), lo si incontra infatti più volte. In un’altra poesia, ad esempio, è il ricordo della «governante teutonica», una Fräulein con un «gusto particolare per il dolore inflitto», a riemergere ogni volta dal buio per riempire di sé e del suo ammaestramento le congiunture private e pubbliche dell’esistenza del poeta («Continuammo a incontrarci/ grazie ad appuntamenti segreti nei miei sogni»). In un’altra, un paziente in analisi rivive in presa diretta, con gli occhi di un soldato romano, le torture e il supplizio subito dall’imperatore Valeriano. E si potrebbe continuare, tanto più se si pensa ai numerosi riferimenti al genocidio degli ebrei, in relazione diretta con l’evento traumatico certo più rilevante dell’esistenza del poeta, la liberazione del campo di concentramento di Flossenbürg nell’aprile del 1945. «Per anni, in seguito, mi sono svegliato urlando», dirà più tardi. Oppure, in una poesia: «La sera, Padre, al buio, quando imploro,/ io sono là, io sono là». Al riguardo, basti leggere la sestina Il Libro di
Yolek, notando in particolare lo snaturamento dell’idillica parola «campo» attraverso il succedersi delle strofe.
Come definire questo procedimento? Una visione al contrario, la rivelazione del rovescio della vitalità e della bellezza, una profezia del male che è nelle cose e, tanto più, negli uomini? Certo attorno a questo asse fondamentale potremmo far gravitare le principali tensioni da cui si genera questa poesia.
Anzitutto quella tra memoria volontaria e involontaria. Hecht è un poeta della storia (personale) e della Storia (pubblica e civile), che anzi sono impensabili l’una senza l’altra. Ed è pertanto un poeta del retaggio, della scelte, della responsabilità. Eppure una sua virtù va senz’altro riconosciuta nel far nascere le situazioni da dentro, dagli abissi della psiche e dell’animo umano, dalle scissure che non sono mai del tutto sotto il nostro controllo, da quella parte di noi che non vorremmo essere e da cui pure non riusciamo a liberarci. Di qui l’inquietudine, il turbamento profondo, a volte perfino il malessere, che spesso accompagnano la lettura. Si avverte ogni volta la presenza di un rovello oscuro, di un non detto terribile che condiziona il presente e che presto infallibilmente esploderà. Di qui anche la necessità che il poeta avverte di spiegare, di riflettere, di riportare a ragione, di far scaturire dalla rappresentazione un giudizio morale, almeno implicitamente.
La scelta dei curatori (da tutta l’opera in versi, ad eccezione del primo libro del 1954) ha probabilmente favorito un simile aspetto, ma è vero che questa poesia spesso e volentieri si allunga come naturalmente alla dimensione del poemetto. Sviluppo narrativo e argomentazione, sono questi i suoi caratteri più marcati. La forza del verso non sta in questa o in quella figura, in una condensazione verbale o in un assunto aforistico, ma nella sintassi delle immagini, nello svolgimento complessivo, tra strappi, raccordi, contrapposizioni e riprese, del discorso poetico. In ogni caso, il disegno, la costruzione, l’intelligenza relazionale vincono sul singolo particolare o sulla sentenza risolutiva.
Anche l’apparato metrico — si tratta di un poeta metrico di grande qualità (il suo primo maestro, in tal senso, è stato il funambolico Wystan Hugh Auden), che eccelle in particolare nell’utilizzo del verso principe della poesia in lingua inglese, il pentametro giambico — sembra inteso anzitutto a conferire spessore, vividezza e tenuta all’argomentazione. Narrare, descrivere, riflettere in versi, è oltremodo difficile, perché la poesia di per sé tollera pochissimo la distensione, la diminuzione dell’intensità, il racconto fine a sé stesso. Ed Hecht sembra averlo compreso benissimo.
Così i suoi poemetti mettono a disposizione della fissità del tema, «la disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo», come l’ha definita Joseph Harrison nell’introduzione al volume, una estrema varietà di richiami e di situazioni: le percezioni immediate, il senso del paesaggio e della bellezza, i ricordi personali, la memoria storica, l’immaginazione, l’auto-riferimento della scrittura, le aperture al mito, la stratificazione letteraria e biblica, e tant’altro. Detto altrimenti, tutti questi elementi concorrono a mettere a f u o c o , c o n p o c h i s s i me d i s p e r s i o n i d’energia, la stessa identica lotta tra «Bene» e «Male», tra «Buoni» e «Cattivi», «in quel mondo perfetto/ di Giustizia sotto Dio» che dovrebbe essere il nostro. L’ironia e il sarcasmo, evidentemente, non sono tra le frecce meno acuminate di questo poeta.