Corriere della Sera - La Lettura
È col dialetto che si conosce la propria faccia
Una folla di personaggi (e un’identità prigioniera) nei lavori del cesenate Dino Pieri
La poesia in dialetto, specie in una terra come la Romagna, è qualcosa di più di una variante di quella in lingua. Basta pensare a Tonino Guerra e a Raffaello Baldini o ancora a Tolmino Baldassari o al cesenate Walter Galli. A Cesena è fiorita anche l’esperienza poetica in dialetto di Dino Pieri (1937-2017), che è stato docente alle scuole superiori, autore di libri di storia locale, studioso della poesia di Aldo Spallicci. Nel tempo ha composto una sessantina di testi poetici, a volte presentati in concorsi specializzati ma mai riuniti in un libro. La raccolta appare ora, a un anno dalla scomparsa, a cura della moglie Maria Assunta Biondi: ’Sté dialet. Poesie (1977-2015), Società Editrice «Il Ponte Vecchio».
Non si creda che si tratti di un’esperienza puramente dilettantesca. Il breve testo giustificativo dell’autore, premesso alle poesie, lo fa comprendere: quella di Pieri è una scrittura necessitata, che serve a «conoscere la propria faccia». In realtà una folla di personaggi si stipa nei versi: lavoranti, morti dimenticati, figure marginali, di cui si dice la fatica anche in chiave sociale. Oltre a quella dell’«io», il poeta accoglie la voce di costoro, che non ne avrebbero, si carica del loro amaro stupore per la vicenda della vita.
In una forma metrica per lo più rigorosa (vari sono i testi scritti per essere musicati e cantati), con un sentore a tratti da ballata popolare, Pieri esprime le immagini ricorrenti dell’essersi perduti, del buio che non si rompe (« u n’ s’ fa mai cèr », reso in italiano con «l’alba non appare») e dello sfiorire. È la dolente consapevolezza di un’esistenza che sembra rinchiusa su sé, prigioniera: così il canto della poesia è simile a quello del canarino vissuto e morto in gabbia di uno dei testi. Gli animali punteggiano più di un componimento: le creature tutte sembrano, in questi versi, essere « in zerca d’una ca » («in cerca di una casa»). Il poeta dice di aver camminato come un bambino « ch’u j dà mo ch’u n’ariva/ a truvè la su ca ’t e’ cör dla nòta » («che si affanna ma non riesce/ a trovare la sua casa nel cuore della notte»). Così, forse, anche Pascoli entra nell’impasto.