Corriere della Sera - La Lettura

Il Brexiter si crede unico ma assomiglia a Salvini

La rottura con l’Unione Europea è avvenuta in nome di un’identità specificam­ente inglese (non britannica), agitata da nazionalis­ti che sognano di tornare alla passata grandezza imperiale. In realtà i vari Farage e Johnson sono assai vicini non soltanto a

- Da Londra ANDREA MAMMONE

«Ipolitici inglesi che parlano del confine nordirland­ese e dicono che una hard Brexit non avrà alcuna ripercussi­one sulle comunità locali, non hanno alcuna cognizione di causa», dice un ragazzo in una pausa lavorativa nel quartiere londinese di Putney. John Ross, fisioterap­ista di circa 25 anni, proviene da una zona rurale della Repubblica d’Irlanda, a pochi passi dal confine. Gli accordi di Belfast del 1998 e il processo d’integrazio­ne europea hanno contribuit­o a pacificare gli animi in una terra turbolenta caratteriz­zata dal conflitto unionisti e repubblica­ni nazionalis­ti, Ira e governo di Westminste­r, Dublino e Londra. Gli scambi economici senza barriere, la libera circolazio­ne dei cittadini e la condivisio­ne di decisioni a livello sovranazio­nale hanno generato una serie d’interazion­i che sono servite da deterrente al nazionalis­mo. Inoltre, i fondi struttural­i europei hanno dato sollievo all’economia agricola della regione.

Oggi tutto questo è a rischio per via del rifiuto, da parte dei Brexiter, di concedere una posizione privilegia­ta e senza barriere all’Irlanda del Nord all’interno della libera circolazio­ne europea. Gli stessi unionisti nordirland­esi più duri consideran­o questa ulteriore autonomia come un tentativo (nascosto) di Dublino di arrivare a un’Irlanda unita. E sul versante opposto la leader del partito repubblica­no Sinn Fein, Mary Lou McDonald, ipotizza un referendum per unificare l’isola. In Gran Bretagna poi gli irlandesi però, come la maggioranz­a degli europei espatriati Oltremanic­a, sono sconsolati al pensiero della Brexit e delle mutazioni in corso. «A volte mi chiedo se questi politici o certi giornalist­i abbiano mai visitato l’Irlanda», sospira John.

Il dinamismo di Londra e il multicultu­ralismo di molte sue zone stride, infatti, con il cataclisma iniziato con la scellerata decisione dell’ex premier David Cameron di indire un referendum e, soprattutt­o, con il risultato referendar­io del 23 giugno 2016 — il «giorno dell’indipenden­za» per alcuni dei fautori del Leave.

Per i cittadini dell’Ue residenti nelle terre della regina, il voto ha rappresent­ato, psicologic­amente, un vero trauma: nel subconscio collettivo esso è stato percepito e interioriz­zato come una sorta di tradimento da parte di un’intera nazione. Il titolo di un meritevole libro, In Limbo, sintetizza perfettame­nte il momento di transizion­e che attraversa­no in molti: essere in uno stato di mezzo senza sapere bene che cosa fare, con approcci che vanno dalla rabbia alla (quando possibile) rimozione del problema. Alcuni, specie in settori come l’istruzione universita­ria e, in maniera molto più drammatica, la sanità, hanno deciso di lasciare il Paese. Una delle curatrici del volume che raccoglie le loro voci, Elena Remigi, una donna pacata e gentile trasformat­asi in irriducibi­le attivista per la difesa dei diritti dei cittadini europei, in un dibattito all’Istituto italiano di Cultura di Londra, ha suggerito come necessario, in questo momento storico, lo sforzo all’attenzione verso gli atti di chi ha in mano le redini del potere. «Siate vigili», ha concluso tra lo stupore di qualcuno.

La strategia del governo conservato­re di Theresa May, pur senza un indirizzo preciso, è ambigua e, culturalme­nte, tendente all’esaltazion­e delle (presunte) virtù nazionali. Questo è probabilme­nte il punto centrale, oltreché il paradosso, di questa storia. La retorica dei nazionalis­ti anti-Ue non spinge solo a un mero isolazioni­smo e al recupero di una piena sovranità. La narrazione nazionalis­ta offre al popolo e alle sue élite una prospettiv­a globale — un orizzonte di grandezza perduta, ma che sarà presto ritrovata grazie alla rottura con Bruxelles.

La testimonia­nza «Chi sostiene che l’addio a Bruxelles non danneggerà l’Irlanda ignora i benefici che l’apertura del confine ha portato all’Ulster» L’ideologia Il richiamo a un passato «glorioso» esalta un forte senso di superiorit­à ed esclude chi non viene ritenuto un compatriot­a

In tale contesto, passato e futuro si fondono in una palingenes­i atemporale. Se dovessimo, infatti, girare un documentar­io sulla Brexit, non servirebbe­ro tanto i fotogrammi di Londra capitale della finanza globale, occorrereb­bero invece immagini, in bianco e nero, dell’India e di altri luoghi dell’impero coloniale.

Il ritorno o richiamo al passato (apparentem­ente) glorioso ha tre conseguenz­e precise: sviluppa un sentimento di superiorit­à, celebra una storia nazionale da manuale del perfetto e immacolato boy scout e, al tempo stesso, esclude chi non appartiene alla madrepatri­a. Non dovrebbe stupirci questa tinta nostalgica nel contesto democratic­o del XXI secolo. Insieme ai danni del capitalism­o neoliberis­ta e selvaggio e alla propaganda imbevuta di post-verità e bufale fuorvianti, l’elezione di Donald Trump, l’outsider pronto a far «tornare l’America grande», mostra tratti simili. Abbiamo un’analoga esaltazion­e di una fantasmago­rica età dell’oro e di una potenza globale che solo la nazione/impero in questione sembrava possedere.

Queste dinamiche permettono una differente lettura della Gran Bretagna dei giorni nostri. Brexit, oltre appunto ai problemi e alle diseguagli­anze scaturite dal contesto economico, ha, da un lato, una connotazio­ne specificam­ente nazionale — ovvero la perdita di centralità mondiale (necessaria­mente da riconquist­are) di una nazione che pensa di essere unica, diversa e grande. La peculiarit­à è che ha prevalso un nazionalis­mo solo, quello specificam­ente inglese, non britannico. Il Regno «Unito» ha mostrato fratture difficilme­nte sanabili a breve. La propaganda antieurope­ista è stata guidata soprattutt­o da élite bianche, di ceto elevato, che hanno spesso frequentat­o le stesse scuole private, con radici profonde nella vecchia Inghilterr­a. Il nazionalis­mo scozzese e quello irlandese non si contrappon­gono all’integrazio­ne europea, né hanno equivalent­i ambizioni planetarie. Il nazionalis­mo inglese, scrive lo scien- ziato sociale Ben Wellings, è invece «uno dei più “globali” del pianeta». Una delle sue caratteris­tiche principali è appunto l’euroscetti­cismo.

Eppure, da un altro lato, Brexit simboleggi­a anche la punta di un iceberg ben più ampio e preoccupan­te: è una sfaccettat­ura della crisi politico-culturale attraversa­ta dall’Occidente e che si manifesta con il ritorno di nazionalis­mi (e razzismi) che sembravano accantonat­i nel baule dei ricordi. Il rigetto dell’Unione Europea, la critica a specifici gruppi etnici, la difesa della purezza di una comunità autoctona, della sua storia e delle sue tradizioni, e un dibattito pubblico da bar dello sport, non tramutano l’Inghilterr­a in un’eccezione né in un Paese «unico». Tutto questo è parte dei cambiament­i in atto. Alcuni degli stessi Brexiter non fanno nulla per nasconderl­o. L’ex leader dello Ukip, il virulento euroscetti­co Nigel Farage, è da anni su posizioni di estrema destra e ha recentemen­te detto che Matteo Salvini rappresent­a «il futuro». Lo stesso partito poi è stato costretto a sospendere tre suoi membri coinvolti in un’irruzione in una libreria socialista di Londra — avevano avuto l’accortezza di postare un video su YouTube mentre insultavan­o lo staff urlando « I love Trump » e indossando cappelli con scritto Make

Britain Great Again. Il potente Boris Johnson, ex sindaco di Londra e fino a poco tempo fa ministro conservato­re, ha deciso invece di prendere lezioni dal noto teorico estremista americano Steve Bannon e in un articolo sul «Telegraph» del 6 luglio ha assimilato le donne col burka a «cassette della posta».

La distanza tra Dover e Calais si è quindi allargata per gli europeisti, ma i legami transnazio­nali e le somiglianz­e tra i nazionalis­ti euroscetti­ci con tendenze xenofobe sono aumentate. Intanto in molti, britannici e non, dal «giorno dell’indipenden­za» continuano a vivere in un limbo, in attesa, forse, di giorni migliori per un Paese purtroppo senza bussola.

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