Corriere della Sera - La Lettura
Il Brexiter si crede unico ma assomiglia a Salvini
La rottura con l’Unione Europea è avvenuta in nome di un’identità specificamente inglese (non britannica), agitata da nazionalisti che sognano di tornare alla passata grandezza imperiale. In realtà i vari Farage e Johnson sono assai vicini non soltanto a
«Ipolitici inglesi che parlano del confine nordirlandese e dicono che una hard Brexit non avrà alcuna ripercussione sulle comunità locali, non hanno alcuna cognizione di causa», dice un ragazzo in una pausa lavorativa nel quartiere londinese di Putney. John Ross, fisioterapista di circa 25 anni, proviene da una zona rurale della Repubblica d’Irlanda, a pochi passi dal confine. Gli accordi di Belfast del 1998 e il processo d’integrazione europea hanno contribuito a pacificare gli animi in una terra turbolenta caratterizzata dal conflitto unionisti e repubblicani nazionalisti, Ira e governo di Westminster, Dublino e Londra. Gli scambi economici senza barriere, la libera circolazione dei cittadini e la condivisione di decisioni a livello sovranazionale hanno generato una serie d’interazioni che sono servite da deterrente al nazionalismo. Inoltre, i fondi strutturali europei hanno dato sollievo all’economia agricola della regione.
Oggi tutto questo è a rischio per via del rifiuto, da parte dei Brexiter, di concedere una posizione privilegiata e senza barriere all’Irlanda del Nord all’interno della libera circolazione europea. Gli stessi unionisti nordirlandesi più duri considerano questa ulteriore autonomia come un tentativo (nascosto) di Dublino di arrivare a un’Irlanda unita. E sul versante opposto la leader del partito repubblicano Sinn Fein, Mary Lou McDonald, ipotizza un referendum per unificare l’isola. In Gran Bretagna poi gli irlandesi però, come la maggioranza degli europei espatriati Oltremanica, sono sconsolati al pensiero della Brexit e delle mutazioni in corso. «A volte mi chiedo se questi politici o certi giornalisti abbiano mai visitato l’Irlanda», sospira John.
Il dinamismo di Londra e il multiculturalismo di molte sue zone stride, infatti, con il cataclisma iniziato con la scellerata decisione dell’ex premier David Cameron di indire un referendum e, soprattutto, con il risultato referendario del 23 giugno 2016 — il «giorno dell’indipendenza» per alcuni dei fautori del Leave.
Per i cittadini dell’Ue residenti nelle terre della regina, il voto ha rappresentato, psicologicamente, un vero trauma: nel subconscio collettivo esso è stato percepito e interiorizzato come una sorta di tradimento da parte di un’intera nazione. Il titolo di un meritevole libro, In Limbo, sintetizza perfettamente il momento di transizione che attraversano in molti: essere in uno stato di mezzo senza sapere bene che cosa fare, con approcci che vanno dalla rabbia alla (quando possibile) rimozione del problema. Alcuni, specie in settori come l’istruzione universitaria e, in maniera molto più drammatica, la sanità, hanno deciso di lasciare il Paese. Una delle curatrici del volume che raccoglie le loro voci, Elena Remigi, una donna pacata e gentile trasformatasi in irriducibile attivista per la difesa dei diritti dei cittadini europei, in un dibattito all’Istituto italiano di Cultura di Londra, ha suggerito come necessario, in questo momento storico, lo sforzo all’attenzione verso gli atti di chi ha in mano le redini del potere. «Siate vigili», ha concluso tra lo stupore di qualcuno.
La strategia del governo conservatore di Theresa May, pur senza un indirizzo preciso, è ambigua e, culturalmente, tendente all’esaltazione delle (presunte) virtù nazionali. Questo è probabilmente il punto centrale, oltreché il paradosso, di questa storia. La retorica dei nazionalisti anti-Ue non spinge solo a un mero isolazionismo e al recupero di una piena sovranità. La narrazione nazionalista offre al popolo e alle sue élite una prospettiva globale — un orizzonte di grandezza perduta, ma che sarà presto ritrovata grazie alla rottura con Bruxelles.
La testimonianza «Chi sostiene che l’addio a Bruxelles non danneggerà l’Irlanda ignora i benefici che l’apertura del confine ha portato all’Ulster» L’ideologia Il richiamo a un passato «glorioso» esalta un forte senso di superiorità ed esclude chi non viene ritenuto un compatriota
In tale contesto, passato e futuro si fondono in una palingenesi atemporale. Se dovessimo, infatti, girare un documentario sulla Brexit, non servirebbero tanto i fotogrammi di Londra capitale della finanza globale, occorrerebbero invece immagini, in bianco e nero, dell’India e di altri luoghi dell’impero coloniale.
Il ritorno o richiamo al passato (apparentemente) glorioso ha tre conseguenze precise: sviluppa un sentimento di superiorità, celebra una storia nazionale da manuale del perfetto e immacolato boy scout e, al tempo stesso, esclude chi non appartiene alla madrepatria. Non dovrebbe stupirci questa tinta nostalgica nel contesto democratico del XXI secolo. Insieme ai danni del capitalismo neoliberista e selvaggio e alla propaganda imbevuta di post-verità e bufale fuorvianti, l’elezione di Donald Trump, l’outsider pronto a far «tornare l’America grande», mostra tratti simili. Abbiamo un’analoga esaltazione di una fantasmagorica età dell’oro e di una potenza globale che solo la nazione/impero in questione sembrava possedere.
Queste dinamiche permettono una differente lettura della Gran Bretagna dei giorni nostri. Brexit, oltre appunto ai problemi e alle diseguaglianze scaturite dal contesto economico, ha, da un lato, una connotazione specificamente nazionale — ovvero la perdita di centralità mondiale (necessariamente da riconquistare) di una nazione che pensa di essere unica, diversa e grande. La peculiarità è che ha prevalso un nazionalismo solo, quello specificamente inglese, non britannico. Il Regno «Unito» ha mostrato fratture difficilmente sanabili a breve. La propaganda antieuropeista è stata guidata soprattutto da élite bianche, di ceto elevato, che hanno spesso frequentato le stesse scuole private, con radici profonde nella vecchia Inghilterra. Il nazionalismo scozzese e quello irlandese non si contrappongono all’integrazione europea, né hanno equivalenti ambizioni planetarie. Il nazionalismo inglese, scrive lo scien- ziato sociale Ben Wellings, è invece «uno dei più “globali” del pianeta». Una delle sue caratteristiche principali è appunto l’euroscetticismo.
Eppure, da un altro lato, Brexit simboleggia anche la punta di un iceberg ben più ampio e preoccupante: è una sfaccettatura della crisi politico-culturale attraversata dall’Occidente e che si manifesta con il ritorno di nazionalismi (e razzismi) che sembravano accantonati nel baule dei ricordi. Il rigetto dell’Unione Europea, la critica a specifici gruppi etnici, la difesa della purezza di una comunità autoctona, della sua storia e delle sue tradizioni, e un dibattito pubblico da bar dello sport, non tramutano l’Inghilterra in un’eccezione né in un Paese «unico». Tutto questo è parte dei cambiamenti in atto. Alcuni degli stessi Brexiter non fanno nulla per nasconderlo. L’ex leader dello Ukip, il virulento euroscettico Nigel Farage, è da anni su posizioni di estrema destra e ha recentemente detto che Matteo Salvini rappresenta «il futuro». Lo stesso partito poi è stato costretto a sospendere tre suoi membri coinvolti in un’irruzione in una libreria socialista di Londra — avevano avuto l’accortezza di postare un video su YouTube mentre insultavano lo staff urlando « I love Trump » e indossando cappelli con scritto Make
Britain Great Again. Il potente Boris Johnson, ex sindaco di Londra e fino a poco tempo fa ministro conservatore, ha deciso invece di prendere lezioni dal noto teorico estremista americano Steve Bannon e in un articolo sul «Telegraph» del 6 luglio ha assimilato le donne col burka a «cassette della posta».
La distanza tra Dover e Calais si è quindi allargata per gli europeisti, ma i legami transnazionali e le somiglianze tra i nazionalisti euroscettici con tendenze xenofobe sono aumentate. Intanto in molti, britannici e non, dal «giorno dell’indipendenza» continuano a vivere in un limbo, in attesa, forse, di giorni migliori per un Paese purtroppo senza bussola.