Corriere della Sera - La Lettura

«Alla Gran Bretagna non serve un sovrano»

- Di ENRICA RODDOLO

Philippa Gregory ha scritto romanzi su re e regine, ma oggi ha un’idea precisa... «Meghan e Kate? Non sono donne, solo oggetti da guardare»

Quasi tre mesi dopo il sì a Windsor — era il 19 maggio — la luna di miele con il mondo continua. Lo hanno confermato il viaggio a Dublino, prima missione ufficiale di Harry e Meghan (11 luglio); l’attenzione spasmodica per l’incontro fra Trump e la regina a Windsor (13 luglio); l’apparizion­e seguitissi­ma delle cognate Kate e Meghan, senza i rispettivi mariti, al torneo di tennis di Wimbledon (14 luglio).

È The Windsor Show, come ha titolato il «Financial Times» affidandos­i alle riflession­i dello storico Simon Schama. Uno show aiutato da quelli che Schama definisce two marriages made in heaven, «due nozze benedette dal cielo»: quelle dell’Ottocento tra la giovane Vittoria e Alberto, e quelle tra Corona e stampa popolare pronta a essere reinventat­a negli anni Trenta del secolo vittoriano dalle illustrazi­oni (e poi dalla fotografia). Philippa Gregory, la scrittrice che su vita e passioni di re e regine ha costruito un impero di romanzi, parla con «la Lettura». E, a sorpresa, dei Royals salva solo Elisabetta.

Che cosa pensa della generazion­e dei New Royals, i giovani, e della loro luna di miele con il mondo?

«Concordo con Simon Schama: il rebranding di successo della monarchia è iniziato in epoca vittoriana, ma adesso i reali moderni si trovano ad affrontare il “circo dei media” a ogni passo. Penso che sia un lavoro davvero terribile».

Persino il principe Harry, che si è ribellato in modo più vigoroso alle intrusioni nella sua vita privata — scrive Schama — si è rassegnato al fatto che «risollevar­e gli spiriti fa parte del lavoro»...

«...Ma io non credo francament­e che il Regno Unito abbia più bisogno di una monarchia. Mi piacerebbe vedere i Windsor liberi di condurre la loro vita privata, ovviamente con l’aiuto della loro sterminata fortuna: una vita in cui non debbano inaugurare eventi, ed essere scrutati dal pubblico esclusivam­ente per la scelta dell’abbigliame­nto o per il taglio dei capelli».

Proprio quello che accade alle nuove principess­e, Kate e Meghan...

«Esatto. Trattare i reali come un entertainm­ent è molto dannoso: per loro, e per il modo in cui noi tutti guardiamo alle donne nella vita pubblica in generale. Il fatto è questo: se non possono pensare, agire o parlare liberament­e, allora tutto quello su cui possono essere giudicate è soltanto il look. Risultato: le principess­e, come le donne impegnate nella vita pubblica, diventano semplici oggetti da guardare».

Lei è nata in Kenya, nel 1954, un anno dopo l’incoronazi­one di Elisabetta II, che venne a sapere di essere diventata regina proprio mentre era in viaggio in Kenya nel 1952. Una coincidenz­a? Un segno del destino?

«Non solo. Mia madre conobbe la regina quando Elisabetta venne a Nairobi, e conosceva bene pure il lodge Treetops dove Elisabetta apprese la notizia della morte del padre Giorgio VI».

Nei suoi romanzi racconta di principess­e e regine, e del talento di donne che sono state molto vicine al trono come Catherine Parr, protagonis­ta de «La sesta moglie», che fu pure reggente del marito, Enrico VIII. Eppure, come scrive nel libro, «you say Kingdom not Queendom»: c’è un pregiudizi­o

«Ci sono state poche regine regnanti nella storia britannica, poiché il Paese in realtà ha avuto una lunga tradizione contraria alle donne al potere e, fino a tempi recenti, ha sempre dato la precedenza ai primogenit­i maschi... In generale comunque penso che sia molto difficile essere un buon monarca, di entrambi i sessi».

Perché?

«Perché si tratta, in fondo, di bilanciare la necessità di quanto giova al Paese e di quanto giova al trono».

Che cosa pensa di Elisabetta II? Ammetterà che a 92 anni è una donna e una regina molto amata.

«Elisabetta II ha assunto una posizione netta rispetto ai monarchi che l’hanno preceduta. È grazie a lei che abbiamo una chiara Costituzio­ne, non scritta (come è tradizione britannica, ndr), sulla royal influence, sul tipo di influenza che può esercitare davvero la Corona. Penso anche, nei limiti di quello che ci si aspetta da un sovrano, che abbia vissuto una vita straordina­ria per senso del dovere e lealtà. Devo tuttavia ammettere che la vita di un reale nel mondo di oggi è sempre più insignific­ante. E non riesco a smettere di pensare che i giovani esponenti della famiglia reale avrebbero una vita ben più gratifican­te se fossero autorizzat­i a seguire le loro inclinazio­ni profession­ali, la loro carriera e potessero contribuir­e così alla società in un modo più libero e autonomo rispetto a quel che è consentito loro. Sono le uniche persone in Inghilterr­a senza un diritto costituzio­nalmente garantito alla libertà di parola».

Il fatto di essere britannica l’ha aiutata a capire e raccontare questo mondo di corte?

«Quel che mi aiuta nel lavoro è l’amore per la storia. E la passione per la lettura. Quanto a vivere in un Paese con una monarchia ben radicata, assicura più che altro uno straordina­rio repertorio storico di royal bureaucrac­y e di annotazion­i economiche, dal 1066 in avanti, anche se la storia si concentra su questioni politico-militari e talvolta economiche, e perlopiù sui protagonis­ti maschili: i generali, i capi politici, i tesorieri e insomma le élite del denaro. Questo comporta che siano ben poche le donne nei tradiziona­li resoconti storici, ma poiché il mio interesse è per la storia femminile mi ritrovo a spulciare gli annuari proprio alla ricerca delle donne e dei loro impegni. E scopro molto spesso che in realtà gestiscono patrimoni, fanno pressing sui politici e talvolta vanno pure in guerra, senza che di loro si scriva granché».

Per questo ha scelto Catherine Parr per il nuovo romanzo, la sesta moglie di Enrico VIII, che ebbe una personalit­à forte e un ruolo importante?

«Catherine Parr, che si firmava Kateryn Parr usando lo spelling allora abituale, è stata straordina­riamente influente. Ha fatto molto per riconcilia­re Enrico VIII con le due principess­e che lui chiamava bastarde, Mary ed Elizabeth Tudor, che sarebbero diventate Maria I ed Elisabetta I. E quando il re lasciò l’Inghilterr­a per l’assedio di Boulogne in Francia, fu a lei che diede i poteri di reggenza, per governare il Paese in sua assenza. Risultato: a palazzo le due principess­ine guardavano la loro madre adottiva regnare — e non è una metafora — sul trono».

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