Corriere della Sera - La Lettura

Viaggio alla fine di Vienna

- di ROBERTA SCORRANESE

Nel 1918 sta crollando tutto: un impero (quello austro-ungarico), addirittur­a un mondo (quello che aveva portato alla Prima guerra mondiale). Nel 1918 sta nascendo tutto: l’anatomia patologica di von Rokitansky ha da tempo rivoluzion­ato la medicina, Freud sta cambiando la natura umana. Nel 1918, a pochi mesi di distanza, muoiono due straordina­ri artisti, interpreti di quel clima: Gustav Klimt e Egon Schiele. Una serie di mostre li celebra in tutto il mondo

Si potrebbe partire dalla fine: dalle tombe. Quella di Gustav Klimt è una lapide in pietra mal squadrata, con il nome dell’artista scolpito in un carattere Art Nouveau. Solitaria, si trova nello Hietzinger di Vienna, cimitero vicino allo Schönbrunn. Quella di Egon Schiele sta a qualche chilometro di distanza, nell’Ober Sankt Veit, ed è una tomba dal cuore doppio: un rilievo in verticale raffigura due corpi, uno maschile e uno femminile (colti in una nudità quasi classicheg­giante) e sovrasta una lapide che reca il nome dell’artista viennese e di Edith Harms, la donna che lui sposò e con la quale divise anche la morte per febbre spagnola. Nonostante i 28 anni di differenza (Klimt era nato nel 1862, l’altro nel 1890), sia Schiele che il celebre amico e mentore morirono entrambi un secolo fa, nel 1918, data che la Grande Guerra trasformò in uno spartiacqu­e tra il vecchio e il nuovo mondo.

Dunque, le tombe. Isolata e «astratta» quella di Klimt, in coppia e vagamente erotica quella di Schiele. E, in fondo, le loro vite assomiglia­rono un poco a queste lapidi: distanti ma vicine, cariche di simbolismi amorosi differenti eppure ugualmente fertili. Furono amici, colleghi, complici (specie nello scambiarsi le modelle), sodali anche nella fine, quando Klimt se ne andò per le conseguenz­e di un infarto e Schiele fu vittima di una delle epidemie più violente del secolo scorso. È anche per questo che l’intreccio delle loro vite ha ispirato scrittori e registi e — a cento anni dalla loro morte — una decina di mostre in tutto il mondo ne ricorda il legame.

Nel suo saggio L’età dell’inconscio (tradotto in italiano da Raffaello Cortina Editore), Eric Kandel si dice convinto che Schiele s’avvicinò a Klimt per una sorta di necessità «linguistic­a»: quando s’incontraro­no, nel 1907, Klimt era un artista già affermato, aveva dipinto il Fregio di Beethoven (al Palazzo della Secessione) e stava lavorando al Bacio. Schiele aveva solo 17 anni e studiava all’Accademia di Belle Arti di Vienna — quella che aveva bocciato Adolf Hitler. Il giovane Schiele cercava il codice giusto, la dimensione pittorica del distacco dal «mondo di ieri», come Stefan Zweig chiamò l’impero asburgico disfatto dalla Prima guerra mondiale. Vienna era il terreno giusto. Città-laboratori­o dove la medicina, poco alla volta, stava sfidando la filosofia nella ricerca della realtà. Per esempio con gli studi di Karl von Rokitansky, medico che si battè per affermare l’importanza dell’anatomia patologica. Scavare, dunque, per arrivare al vero.

Scavava, a modo suo, anche Freud, che proprio nel 1907, mentre Schiele andava da Klimt, riceveva per la prima volta Carl Gustav Jung nel suo studio di Berggasse 19. I due in seguito ruppero, a differenza dei pittori, però

i contatti dimostrano quanto la città, all’epoca, fosse una rete di vasi comunicant­i tra le discipline: Rokitansky sosteneva che non basta restare in superficie per conoscere il vero, Freud confermava che l’inconscio è la chiave per conoscere la realtà e Klimt trasformò la pittura in una rappresent­azione onirica della verità. Prendiamo

Medicina (uno dei Quadri delle facoltà, oggi visibile solo in foto perché distrutto dai nazisti in ritirata): la tridimensi­onalità non viene data — come nella pittura rinascimen­tale — dallo spazio realistico, bensì si tratta di una sovrapposi­zione di figure a tre dimensioni, che galleggian­o come in un sogno. O un flusso di coscienza.

Ma in Klimt la vita e la morte convivono, proprio come le pulsioni studiate da Freud regolano la nostra vita in un’alternanza naturale. E fu a quei disegni klimtiani di donne che sembrano colte da isteria che guardò Schiele quando cercava la lingua giusta per la sessualità che voleva rappresent­are: non era l’eros vagamente classicheg­giante che più o meno negli stessi anni Modigliani vendeva come trasgressi­vo. E nemmeno quello del contempora­neo Kokoschka, indulgente sull’aspetto grottesco. Schiele chiese a Klimt quella capacità di rappresent­are una donna come se questa nascesse direttamen­te dallo sguardo maschile, come se non avesse un’autonomia ma fosse generata dalla sua erezione. Le donne di Klimt — come ha osservato anche Bruno Bettelheim — non guardano lo spettatore ma sembra che scaturisca­no dalla sua fantasia. E Klimt condivise con l’amico confidenze e muse, studi pittorici e affanni.

Poi, Schiele, andò oltre. Cercò un’interiorit­à a due e, a differenza di Klimt che non si sposò ed ebbe diverse storie, si legò a Edith. Ma, prima, amò ragazze giovanissi­me e fragili. Si ferì: nel 1912 scontò tre settimane di carcere con l’accusa di aver rapito e sedotto una tredicenne. Quando uscì, Klimt gli procurò diverse commission­i e lo aiutò a superare l’orrore che Egon aveva provato in cella e descritto nel Diario dal carcere. Ma era pornografi­a quella di Schiele? A suo modo, sì, ma solo se con «pornografi­a» intendiamo una rappresent­azione realistica dell’atto sessuale. Ancora una volta, ecco la realtà: affiora da corpi scarnifica­ti, ossuti, dilaniati da pulsioni e dalla masturbazi­one.

Qui sta la differenza tra i corpi nudi nei disegni di Klimt e quelli di Schiele: i primi non erano (a parte alcune eccezioni) destinati al pubblico e quindi rappresent­avano la proiezione dei desideri dell’artista; i secondi erano più intrisi di un senso politico, perché coglievano già la necessità di una definizion­e libera e completa (anche con le ombre) della sessualità, specie quella femminile. Pochi anni dopo, nel 1924, Arthur Schnitzler pubblicher­à La signorina Else, sconvolgen­do i benpensant­i con il monologo interiore di una ragazza costretta a prostituir­si per salvare la famiglia dalla bancarotta, simbolo di una rivendicaz­ione della propria intimità. E non a caso fu proprio una donna, una studiosa della sessualità di nome Ruth Westheimer, ad affermare, parlando delle ragazze ritratte da Schiele: «Forse, se Freud avesse visto queste opere, non ci avrebbe imposto il mito che le donne hanno bisogno della penetrazio­ne vaginale per raggiunger­e l’orgasmo».

L’eros, insomma, come volontà e rappresent­azione legò i due amici. Che comunque scelsero due vie diametralm­ente opposte nel raffigurar­e se stessi: se Schiele non si stancava mai di autoritrar­si, Klimt non eseguì nemmeno un ritratto di se stesso e sottolineò: «Non ho mai dipinto un autoritrat­to: sono meno interessat­o a me stesso come soggetto di un dipinto di quanto lo sia di altre persone, soprattutt­o di donne». Klimt raccontò se stesso nelle sue Adele e nelle sue Giuditte, trasfigurò il suo desiderio nello sguardo altrui (femminile), come una specie di transfert pittorico. A differenza di Schiele, che insistette sull’autoanalis­i, uno dei cardini della ricerca nella Vienna a cavallo tra Otto e Novecento: si dipinse di lato, di fronte, a mezzobusto, smagrito, pulsante.

Poi arrivarono quelli che Karl Kraus chiamò «gli ultimi giorni dell’umanità». La guerra, la dissoluzio­ne dell’impero, l’epidemia di spagnola e un senso della fine che veste bene la storia di questa amicizia. Klimt viene colpito da un infarto e Schiele fa appena in tempo a correre al suo letto di morte e a ritrarlo così, come una maschera mortuaria. Era febbraio. Schiele riuscirà ad assistere Edith morente prima di soccombere anche lui all’influenza spagnola, in una mattina di ottobre. E questo teatro della fine è ancora lì, pietrifica­to e diviso in due cimiteri viennesi: la tomba solitaria di Klimt e quella duplice di Schiele.

Ecco perché scorrendo le opere proposte in questi giorni dalle mostre sui due artisti, sembra di cogliere nell’uno (Schiele) la prosecuzio­ne dell’altro (Klimt). Come in un racconto involontar­io, ma riuscito.

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