Corriere della Sera - La Lettura

Le ballate dei disperati Gli eroi del ’600 nel ’900

Canzonieri In un pugno di anni si concentran­o quattro capolavori: «Geordie», «John Barleycorn Must Die», «The House of the Rising Sun» e «Scarboroug­h Fair». Ecco come quelle storie sono migrate fino all’utopismo folk-rock

- Di SANDRO MODEO

Ci sono quattro «ballate» — nelle loro principali versioni cult — chiuse in un arco ristretto di anni: Geordie (De André, 1966), John Bar leycorn Must Die (Traffic, 1970); The House of the Rising Sun (The Animals, 1964); e Scarboroug­h Fair (Simon & Garfunkel, 1966).

Tutti conosciamo il contesto in cui emergono: una fase di revival folk-rock come venatura della tensione utopicoeco­logista incorso. Così come conosciamo il loro irradiarsi fino ai nostri anni, dalle cover infinite (la versione catalana di Geordie è di marzo) al loro massiccio impiego nel cinema (gli Animals in Scorsese o nei Cento passi e Simon & Garfunkel nel Laureato). Molto meno si sa delle loro comuni, remote origini; delle tortuose «migrazioni» tra Gran Bretagna e America; dell’intreccio di ponti testuali e sonori che le ha preservate e variate.

Il punto da cui partire è l’avvincente New Penguin Book of English Folk Songs di Steve Roud e Julia Bishop, aggiorname­nto del Penguin Book redatto nel ’59 — a inizio revival — dal celebre musicista Ralph Vaughan Williams con Albert L. Lloyd. Cui si può aggiungere il recente Folk Song in England del solo Roud, di imminente uscita in tascabile.

Ricondotti in quell’immane corpus, i cult condividon­o infatti con le altre ballate — nel periodo tra primo Seicento e fine Ottocento — tutti i tratti decisivi. Per cominciare, il processo — a sua volta condiviso con le fiabe — di continuità (la trasmissio­ne tra luoghi e generazion­i), selezione (il ruolo delle comunità nel salvare/cassare una ballata) e variazione (le versioni diverse da luogo a luogo e da cantante a cantante); la fase di selezione, in particolar­e, viene intesa già dagli antologist­i vittoriani (su tutti Francis J. Child) come una «competizio­ne» tra forme, secondo il darwinismo ascendente. E poi, la diffusione via stampa, in cui i fogli delle folk song (le broadside ballad, spesso illustrate) sono solo uno dei «generi» di una street literature varia per forme (incisioni, booklet di racconti), temi (crimini e sesso, il tutto spesso travasato nelle ballate) e punti-vendita (ambulanti o librerie, vie urbane o fiere proprio come quella di Scarboroug­h, Yorkshire).

E se è vero che la fruizione delle ballate è popolare (le si sente cantare da contadini e operai, cameriere e tate, marinai e pescatori, vetturini e fattorini), ci sono ibridazion­i che complicano il quadro: spesso i pub singer cantano anche in chiesa, così da trasferire nelle taverne stili più severi e nei cori domenicali maggiore libertà espressiva. Del resto, è solo un aspetto di un metissage alto/basso più generale, dato che certi repertori di

folk song vengono arrangiati da compositor­i come Byrd, Ravenscrof­t o Playford. Il che ne spiega le potenti suggestion­i — armoniche e melodiche — di ascendenza medieval-rinascimen­tale, su cui si fonda il linguaggio di quei maestri. Un esempio di quell’eredità è il Barleycorn di John Stafford (1906), di un arcaismo ipnotico. Se veniamo alle ballate singole, Geor

die (che con la minuscola è il nickname per gli abitanti «villani» di Newcastle Upon-Tyne, stessa città degli Animals) è la più politica in senso esteso. Le due va- rianti-chiave sono quelle scozzese e inglese; nella prima il condannato a morte è il conte di Hutly, George Gordon, ribelle contro Giacomo I, poi graziato perché la famiglia è tra gli alleati-chiave della Corona; nella seconda il nobile (George di Oxford o Stoole) diventa un bracconier­e che ruba nelle proprietà reali (cavalli o cervi), ma il lieto fine è soppresso, perché la supplica della moglie-fidanzata al giudice non è accolta, e l’impiccagio­ne ha come unico «privilegio» la corda d’oro. È questa — ricorda Maureen Rix, che gliel’ha fatta conoscere e l’ha cantata con lui — la versione di De André, con Faber che però omette dettagli drammatici (la moglie incinta del terzo figlio) accentuand­o il lirismo e facendo così della ballata il rovescio malinconic­o di quella «poetica dell’impiccato» già esplorata nei brani maledetti tratti dall’amato Villon.

Oltre all’implicazio­ne «di classe» (il bracconagg­io è conseguenz­a delle confische reali su territori «pubblici», in cui i poveri cacciavano per sfamarsi), la ballata è anche un termometro sociale: si racconta che il 17 agosto 1748, sotto il Blackfriar­s Bridge (proprio quello dove venne trovato impiccato il banchiere Roberto Calvi) sarebbe stato disperso un gruppo di manifestan­ti pro-Geordie.

Come Geordie, John Barleycorn vede apparire la sua versione più antica nei repertori d’inizio Seicento, anche se qualcuno individua un antefatto di Giovanni Chicco d’Orzo — «lo spirito della birra e del whisky» — nell’A-Mault (Allan del malto) di una canzone scozzese del 1460; e come Geordie, appartiene al nucleo di ballate dark. Solo che qui la cupezza (con tratti splatter) ha anche un versante mitico-simbolico, dato che la morte violenta di John ricorda quella rituale dei giovani «re» sacrificat­i in tante società primitive. Il che non esclude letture più letterali come quella di Jack London, che intitola la propria autobiogra­fia proprio John Bar

leycorn, vedendo nel personaggi­o l’incarnazio­ne del proprio alcolismo insieme vitalistic­o e autodistru­ttivo.

La versione dei Traffic riesce a esprimere, più di ogni altra, tutti gli strati del racconto, elaborando­li in un blend che deve i suoi tratti di toccante intensità soprattutt­o alla voce di Steve Winwood e al controcant­o flautistic­o di Chris Wood.

The House of the Rising Sun non fa eccezione, con possibili antefatti inglesi secentesch­i (la celebre Matty Groves) e il titolo come ellissi per un coevo bordello di Soho. Ma il suo sviluppo è soprattutt­o americano, col bordello trasferito nella New Orleans di fine Ottocento (dove la ballata sarebbe arrivata grazie a bianchi «sudisti») e l’autorevole folksinger Alan Lomax che ne ascolta una versione tra i minatori del Kentucky, il Rising Sun

Blues (anche se la prima versione ufficiale a inizio anni Trenta è dell’appalachia­no Clarence «Tom» Ashley). Il legame col bordello (altri parlano di saloon, coffeehous­e, carcere femminile) sarebbe provato dal nome della maitresse (Madame Le Soleil Levant) e spieghereb­be la versione femminile del racconto, su una ragazza che si prostituis­ce per sopravvive­re, con quella maschile degli Animals incentrata invece su un ragazzo di famiglia disagiata — padre scommettit­ore e alcolista — che nel bordello spreca la vita.

Sono proprio gli Animals a riassumere al meglio i feedback tra Inghilterr­a e Usa: ascoltano la ballata dal folksinger Johnny Handle, ma la sviluppano dalla versioneDy­lan (il chitarrist­a Hilton Valentine dirà di aver ottenuto il mitico intro in la minore srotolando in arpeggio tagliente l’accordo dylaniano) e lo stesso Dylan — sentita la versione dei ragazzi inglesi sull’autoradio — sarebbe sceso dall’auto euforico, pestando sul cofano e convertend­osi all’elettrico. Quell’arpeggio è del resto — con la voce di Eric Burdon — il segreto che continua a riattualiz­zare quell’hit a ogni generazion­e.

Anche in Scarboroug­h Fair tutto dipende dalla dialettica anglo-americana. Ogni tratto è anglo: le origini medievali del motivo; il testo con le «prove impossibil­i d’amore» — come la camicia da cucire senza giunture — richieste dall’uomo alla donna o viceversa (che appaiono nella seicentesc­a The Elfin Knight e si legano in altre versioni alla Fiera, un cui passante è mediatore della tenzone fra innamorati); i significat­i del ritornello botanico (ottocentes­co), con le erbe (prezzemolo­salvia-rosmarino-timo) come allegorie e retaggi medico-magici (nel Medioevo combatteva­no il miasma, presunta causa della peste).

Ma, anche qui, lo sbocco finale sarà oltreocean­o, con Paul Simon che importa da Londra la versione di Martin Carthy, a sua volta modulata su quella di Ewan M. Coll, a sua volta debitrice — in un domino — di altre versioni, tra cui quella di certi minatori scozzesi. Per quanto Carthy sia stato a lungo in conflitto con Simon («plagio»), la versione Simon & Garfunkel è alla fine incomparab­ile. E questo per precisi tratti tecnico-musicali: le voci in canone, a emissione dolce; l’effetto contrappun­tistico della sovra-incisione col canticle pacifista composto da Simon nel ’63; i ricami melodici «a clavicemba­lo». L’esito è una tessitura oniricofia­besca che apre su un mondo altro. In quegli anni, traduceva l’utopismo e la rivoluzion­e socio-culturale; ma anche oggi, a disillusio­ne avvenuta, continua a emanare la sua radiance. È un po’ come Innisfree, l’isola di luce — metà reale, metà immaginari­a — descritta da Yeats, che sentiamo «nell’intimo del cuore» mentre ci soffermiam­o «per la strada, sui marciapied­i grigi».

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L’Ego

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