Corriere della Sera - La Lettura
Gli arcipelaghi della metamorfosi
Qualche giorno fa, un amico io francese di ritorno dalla Poliinesia mi ha raccontato che he Al i a no è molto ammalato. o. Non si cura e non vuole che ci si occupi di lui. Aliano è un polinesiano no che vive sull’isola di Futuna, uno scoglio io di 60 chilometri quadrati e quattromila la abitanti, al centro del Pacifico, a qualche he centinaio di chilometri dalle più note Samoa, Figi e Tonga. Quando l’ho conosciuu-to, una decina di anni fa, viveva da solo in n un piccolo fale nel villaggio di Vele, una na casa con il tetto di foglie di pandano, o, poggiato su un muretto di mattoni e cemento, il pavimento di corallo sbiancato. o. La mattina all’alba partiva per i suoi cammpi di taro e igname sull’acuto pendio dellla montagna, un piccolo manou (una sorrta di pareo) attorno alla vita, l’immancaabile machete, due panieri di fronde di cocco intrecciate e appoggiate, come una na bilancia, bil i sulle ll spalle, ll per trasportare t t tut beri e banane a valle. Parla solo polinesiano, Aliano, ha frequentato le scuole alla missione cattolica prima che l’isola accedesse allo Statuto di Territorio d’Oltremare francese (1961). Quando era più giovane, beveva molta kava, la bevanda ricavata da una pianta della famiglia del pepe, praticamente ogni sera, nel fale tauasu, la «casa degli uomini».
Ricordo una notte, ero ospite della sua famiglia, mi svegliai di colpo vedendo un fascio di luce che si agitava nella vegetazione: era Aliano che cacciava gli enormi granchi del cocco ( Birgus latro). I suoi figli vivono dispersi per il mondo: Koleta abita sui Pirenei e gestisce una pizzeria ambulante nei mercati dell’Ariège; Maité insegna in una scuola media a Thio in Nuova Caledonia; Otilia ha sposato un maori autista di autobus a Auckland. Il figlio primogenito di Aliano, Toma, fu uno dei primi studenti universitari dell’isola e, di rientro da Lione, introdusse il cristianesimo evangelico, incrinando 150 anni di esclusiva presenza cattolica. Philo, un’altra figlia, ha sposato un polinesiano discendente di catalani che lavora con una compagnia aerea del Pacifico e attraversa senza sosta oceani e nazioni.
L’Oceania che sarà celebrata dalla mostra della Royal Academy of Arts di Londra, 250 anni dopo la (ri)scoperta di Cook, continua a essere un continente, anzi un «mare di isole» secondo la definizione di Epeli Hau’ofa, che provoca sconcerto, perché scombina e stravolge molti concetti con cui guardiamo alle altre società. La tradizione e il radicamento di Aliano convivono con la mobilità e le vite transnazionali dei suoi figli. James Clifford scriveva che l’Oceania è abitata da «indigeni cosmopoliti». Fortemente radicati sulle isole certo, ma con una in-
Costellazione di isole abitate da selvaggi isolati? Mica tanto. Il continente del Pacifico è invece il frutto di ondate migratorie che hanno esaltato inventiva e capacità di adattamento delle sue genti. Ci aiuterà a capirlo una mostra a Londra (che non attinge alle collezioni italiane: peccato)
credibile propensione al viaggio, alla creatività e all’espansione delle loro culture. Una complessa tessitura di popoli, l’Oceania, fatti di «radici» e «strade», roots and routes, secondo il gioco di parole inglese che dà il titolo a uno dei più noti libri dell’antropologo americano ( Strade, Bollati Boringhieri, 2008). Lo sconcerto che, fin dall’inizio, colpì gli esploratori occidentali fu trovare già abitata ogni grande isola o piccolo scoglio dotato di un minimo di terra fertile e di possibilità di approvvigionamento di acqua dolce. La domanda che risuona fin dagli inizi settecenteschi dell’epopea europea in Oceania insulare è infatti: come sono arrivati fino a qui? Come è possibile che esseri umani, giudicati al solito dagli europei come «primitivi» e «naturali», che non lavoravano i metalli, fossero approdati su isole, come Pasqua, le Pitcairn, Tuvalu o Kiribati, a migliaia di chilometri dalle terre più vicine? Oggi sappiamo come andarono le cose, grazie ai saperi nativi e alle indagini della scienza. Semplificando, si può dire che l’Oceania è stata oggetto di tre principali ondate di popolamento. La prima, risalente secondo alcuni fino a 60 mila anni fa, vide l’arrivo di Homo sapiens in Papua Nuova Guinea e in Australia. Erano i lontani antenati di quelle popolazioni che vennero definite Papua, Aborigeni Australiani e Nativi dello Stretto di Torres. Questa ondata si arrestò su alcune grandi isole melanesiane, senza fare il grande balzo verso l’Oceania remota. La seconda ondata iniziò circa 5 mila anni fa nell’Estremo Oriente, con tutta probabilità a Taiwan, quando gruppi di abili navigatori cominciarono a viaggiare verso est, insediandosi (prevalentemente) sulle coste delle isole indonesiane, in Papua Nuova Guinea e spingendosi poi con un processo di stop and go fino alle estremità orientali del Pacifico e fino, a ovest, alle coste del Madagascar. Queste società, dette «austronesiane» (una categoria linguistica) o «lapita» (dal nome della ceramica decorata che produssero fin verso l’anno mille), esplorarono sistematicamente il più grande oceano del pianeta, raggiungendo le ultime destinazioni (Aotearoa/Nuova Zelanda e Hawaii) poco più di 500 anni fa, un paio di secoli prima di Cook in effetti. Il loro successo fu legato principalmente alle complesse tecniche agricole e alle abilità di navigazione e orientamento. Questo processo di espansione fu anche una incredibile storia di trasformazioni e differenziazioni culturali e linguistiche. Nella sola Nuova Guinea si parlano tuttora 820 lingue. Complessivamente l’Oceania vanta 1.100 lingue parlate, un quarto della ricchezza linguistica del pianeta.
La terza marea di popolamento è quella che ha in Cook, Bougainville, Wallis (prima di loro navigatori spagnoli, portoghesi e olandesi) e in altri esploratori gli antesignani. L’irruzione delle nazioni europee, preceduta da esploratori, balenieri, commercianti di trepang e legno di sandalo, missionari, avventurieri, divenne a fine Ottocento progetto di spartizione coloniale. Confluirono così in Oceania popolazioni e lingue europee ma anche lavoratori più o meno «obbligati» in provenienza dall’Asia, dall’Indonesia, dall’India, dall’America Latina eccetera.
Le storie coloniali furono diversissime e dagli esiti spesso incomparabili: in alcune isole e arcipelaghi gran parte delle terre vennero acquisite dalle nuove potenze, le autorità locali destituite o molto
marginalizzate, le risorse minerarie e paesaggistiche spogliate e violentate (Hawaii, Polinesia francese...); in altre aree, nonostante il colonialismo, l’avanzata del cristianesimo e più di recente la globalizzazione economica, i nativi hanno mantenuto il controllo della terra e, seppure trasformati, dei sistemi politici originari (a Tonga la dinastia regale preeuropea è tuttora regnante). L’Oceania di oggi è il prodotto complesso di queste antiche e nuove ondate migratorie e di movimenti e scambi interni che hanno a volte portato violenze e terrore e a volte fecondato le relazioni interculturali.
L’Oceania contemporanea è un laboratorio di forme di organizzazione politica che hanno creativamente legato sistemi locali e democrazie occidentali. L’Australia, Aotearoa/Nuova Zelanda e gli Usa (con un peso crescente della Francia, per via dei suoi territori d’oltremare) svolgono ovviamente, e non da oggi, il ruolo di «superpotenze» del Pacifico. Accanto a esse, tuttavia, esiste un variegato insieme di micro-Stati indipendenti (Tuvalu, Nauru, Kiribati), di territori legati ad altre nazioni da «libere» associazioni (Niue, Cook, Marshall) e soprattutto una marea di isole, regioni, villaggi in cui la tradizione e la modernità si combinano in forme imprevedibili e in continua trasformazione, anche in virtù dei nuovi mezzi di comunicazione che hanno permesso di tenere insieme «isole di tradizione» e popolazioni diasporiche. La caccia ai granchi del cocco, le tecnologie informatiche, l’avanzata di sette e nuove religioni.
A torto si pensa che l’Oceania sia, vista dall’Italia, solo una sognata destinazione esotica, acque coralline, spiagge bianche e cocktail tropicali. Alcuni esploratori, da Luigi Maria d’Albertis a Lamberto Loria, ebbero un ruolo importante nel documentare e cartografare alcune aree della
Nuova Guinea. Marco Cuzzi e Guido Carlo Pigliasco hanno di recente pubblicato Storie straordinarie di italiani nel Pacifi
co (Odoya, 2016), in cui emergono intrecci politici, economici e culturali tra l’Italia e alcuni Stati pacifici a partire da dieci biografie di italiani e italiane, spesso sconosciuti nel nostro Paese e che hanno invece lasciato tracce in Oceania. Alcune istituzioni italiane, come il Museo nazionale preistorico ed etnografico «Pigorini» di Roma e il Museo nazionale di Antropologia ed Etnologia di Firenze conservano collezioni di grande rilevanza internazionale (peccato che la mostra di Londra non abbia attinto materiali, come è stato il caso di recente per il Museo Quai Branly di Parigi). Alcuni archivi missionari (Padri Maristi e Padri dei Sacri Cuori, Picpus, di Roma, per esempio) hanno materiali molto preziosi per ricostruire la storia dell’evangelizzazione del Pacifico. Antropologi e antropologhe italiane hanno compiuto di recente lunghe ricerche di campo in Oceania.
Per le genti del Pacifico, riscoprire il passato, dalla documentazione archivistica al patrimonio di oggetti, ha oggi principalmente il significato di ricominciare a tessere relazioni interrotte dal fatto coloniale. Si lavora e molto nella riscoperta di quell’aria di famiglia che lega lingue, culture, performance, stili dell’abitare il mondo. Davanti a un clima surriscaldato che minaccia gli atolli più indifesi del Pacifico, le società oceaniane rivendicano la loro responsabilità verso l’ambiente e l’abilità nel costruire reti di relazioni che hanno tradizionalmente funzionato come strategie di resilienza verso le grandi calamità naturali (cicloni, terremoti, tsunami, siccità) che queste società insulari hanno dovuto affrontare.