Corriere della Sera - La Lettura

Gli arcipelagh­i della metamorfos­i

- Di ADRIANO FAVOLE

Qualche giorno fa, un amico io francese di ritorno dalla Poliinesia mi ha raccontato che he Al i a no è molto ammalato. o. Non si cura e non vuole che ci si occupi di lui. Aliano è un polinesian­o no che vive sull’isola di Futuna, uno scoglio io di 60 chilometri quadrati e quattromil­a la abitanti, al centro del Pacifico, a qualche he centinaio di chilometri dalle più note Samoa, Figi e Tonga. Quando l’ho conosciuu-to, una decina di anni fa, viveva da solo in n un piccolo fale nel villaggio di Vele, una na casa con il tetto di foglie di pandano, o, poggiato su un muretto di mattoni e cemento, il pavimento di corallo sbiancato. o. La mattina all’alba partiva per i suoi cammpi di taro e igname sull’acuto pendio dellla montagna, un piccolo manou (una sorrta di pareo) attorno alla vita, l’immancaabi­le machete, due panieri di fronde di cocco intrecciat­e e appoggiate, come una na bilancia, bil i sulle ll spalle, ll per trasportar­e t t tut beri e banane a valle. Parla solo polinesian­o, Aliano, ha frequentat­o le scuole alla missione cattolica prima che l’isola accedesse allo Statuto di Territorio d’Oltremare francese (1961). Quando era più giovane, beveva molta kava, la bevanda ricavata da una pianta della famiglia del pepe, praticamen­te ogni sera, nel fale tauasu, la «casa degli uomini».

Ricordo una notte, ero ospite della sua famiglia, mi svegliai di colpo vedendo un fascio di luce che si agitava nella vegetazion­e: era Aliano che cacciava gli enormi granchi del cocco ( Birgus latro). I suoi figli vivono dispersi per il mondo: Koleta abita sui Pirenei e gestisce una pizzeria ambulante nei mercati dell’Ariège; Maité insegna in una scuola media a Thio in Nuova Caledonia; Otilia ha sposato un maori autista di autobus a Auckland. Il figlio primogenit­o di Aliano, Toma, fu uno dei primi studenti universita­ri dell’isola e, di rientro da Lione, introdusse il cristianes­imo evangelico, incrinando 150 anni di esclusiva presenza cattolica. Philo, un’altra figlia, ha sposato un polinesian­o discendent­e di catalani che lavora con una compagnia aerea del Pacifico e attraversa senza sosta oceani e nazioni.

L’Oceania che sarà celebrata dalla mostra della Royal Academy of Arts di Londra, 250 anni dopo la (ri)scoperta di Cook, continua a essere un continente, anzi un «mare di isole» secondo la definizion­e di Epeli Hau’ofa, che provoca sconcerto, perché scombina e stravolge molti concetti con cui guardiamo alle altre società. La tradizione e il radicament­o di Aliano convivono con la mobilità e le vite transnazio­nali dei suoi figli. James Clifford scriveva che l’Oceania è abitata da «indigeni cosmopolit­i». Fortemente radicati sulle isole certo, ma con una in-

Costellazi­one di isole abitate da selvaggi isolati? Mica tanto. Il continente del Pacifico è invece il frutto di ondate migratorie che hanno esaltato inventiva e capacità di adattament­o delle sue genti. Ci aiuterà a capirlo una mostra a Londra (che non attinge alle collezioni italiane: peccato)

credibile propension­e al viaggio, alla creatività e all’espansione delle loro culture. Una complessa tessitura di popoli, l’Oceania, fatti di «radici» e «strade», roots and routes, secondo il gioco di parole inglese che dà il titolo a uno dei più noti libri dell’antropolog­o americano ( Strade, Bollati Boringhier­i, 2008). Lo sconcerto che, fin dall’inizio, colpì gli esplorator­i occidental­i fu trovare già abitata ogni grande isola o piccolo scoglio dotato di un minimo di terra fertile e di possibilit­à di approvvigi­onamento di acqua dolce. La domanda che risuona fin dagli inizi settecente­schi dell’epopea europea in Oceania insulare è infatti: come sono arrivati fino a qui? Come è possibile che esseri umani, giudicati al solito dagli europei come «primitivi» e «naturali», che non lavoravano i metalli, fossero approdati su isole, come Pasqua, le Pitcairn, Tuvalu o Kiribati, a migliaia di chilometri dalle terre più vicine? Oggi sappiamo come andarono le cose, grazie ai saperi nativi e alle indagini della scienza. Semplifica­ndo, si può dire che l’Oceania è stata oggetto di tre principali ondate di popolament­o. La prima, risalente secondo alcuni fino a 60 mila anni fa, vide l’arrivo di Homo sapiens in Papua Nuova Guinea e in Australia. Erano i lontani antenati di quelle popolazion­i che vennero definite Papua, Aborigeni Australian­i e Nativi dello Stretto di Torres. Questa ondata si arrestò su alcune grandi isole melanesian­e, senza fare il grande balzo verso l’Oceania remota. La seconda ondata iniziò circa 5 mila anni fa nell’Estremo Oriente, con tutta probabilit­à a Taiwan, quando gruppi di abili navigatori cominciaro­no a viaggiare verso est, insediando­si (prevalente­mente) sulle coste delle isole indonesian­e, in Papua Nuova Guinea e spingendos­i poi con un processo di stop and go fino alle estremità orientali del Pacifico e fino, a ovest, alle coste del Madagascar. Queste società, dette «austronesi­ane» (una categoria linguistic­a) o «lapita» (dal nome della ceramica decorata che produssero fin verso l’anno mille), esploraron­o sistematic­amente il più grande oceano del pianeta, raggiungen­do le ultime destinazio­ni (Aotearoa/Nuova Zelanda e Hawaii) poco più di 500 anni fa, un paio di secoli prima di Cook in effetti. Il loro successo fu legato principalm­ente alle complesse tecniche agricole e alle abilità di navigazion­e e orientamen­to. Questo processo di espansione fu anche una incredibil­e storia di trasformaz­ioni e differenzi­azioni culturali e linguistic­he. Nella sola Nuova Guinea si parlano tuttora 820 lingue. Complessiv­amente l’Oceania vanta 1.100 lingue parlate, un quarto della ricchezza linguistic­a del pianeta.

La terza marea di popolament­o è quella che ha in Cook, Bougainvil­le, Wallis (prima di loro navigatori spagnoli, portoghesi e olandesi) e in altri esplorator­i gli antesignan­i. L’irruzione delle nazioni europee, preceduta da esplorator­i, balenieri, commercian­ti di trepang e legno di sandalo, missionari, avventurie­ri, divenne a fine Ottocento progetto di spartizion­e coloniale. Confluiron­o così in Oceania popolazion­i e lingue europee ma anche lavoratori più o meno «obbligati» in provenienz­a dall’Asia, dall’Indonesia, dall’India, dall’America Latina eccetera.

Le storie coloniali furono diversissi­me e dagli esiti spesso incomparab­ili: in alcune isole e arcipelagh­i gran parte delle terre vennero acquisite dalle nuove potenze, le autorità locali destituite o molto

marginaliz­zate, le risorse minerarie e paesaggist­iche spogliate e violentate (Hawaii, Polinesia francese...); in altre aree, nonostante il colonialis­mo, l’avanzata del cristianes­imo e più di recente la globalizza­zione economica, i nativi hanno mantenuto il controllo della terra e, seppure trasformat­i, dei sistemi politici originari (a Tonga la dinastia regale preeuropea è tuttora regnante). L’Oceania di oggi è il prodotto complesso di queste antiche e nuove ondate migratorie e di movimenti e scambi interni che hanno a volte portato violenze e terrore e a volte fecondato le relazioni intercultu­rali.

L’Oceania contempora­nea è un laboratori­o di forme di organizzaz­ione politica che hanno creativame­nte legato sistemi locali e democrazie occidental­i. L’Australia, Aotearoa/Nuova Zelanda e gli Usa (con un peso crescente della Francia, per via dei suoi territori d’oltremare) svolgono ovviamente, e non da oggi, il ruolo di «superpoten­ze» del Pacifico. Accanto a esse, tuttavia, esiste un variegato insieme di micro-Stati indipenden­ti (Tuvalu, Nauru, Kiribati), di territori legati ad altre nazioni da «libere» associazio­ni (Niue, Cook, Marshall) e soprattutt­o una marea di isole, regioni, villaggi in cui la tradizione e la modernità si combinano in forme imprevedib­ili e in continua trasformaz­ione, anche in virtù dei nuovi mezzi di comunicazi­one che hanno permesso di tenere insieme «isole di tradizione» e popolazion­i diasporich­e. La caccia ai granchi del cocco, le tecnologie informatic­he, l’avanzata di sette e nuove religioni.

A torto si pensa che l’Oceania sia, vista dall’Italia, solo una sognata destinazio­ne esotica, acque coralline, spiagge bianche e cocktail tropicali. Alcuni esplorator­i, da Luigi Maria d’Albertis a Lamberto Loria, ebbero un ruolo importante nel documentar­e e cartografa­re alcune aree della

Nuova Guinea. Marco Cuzzi e Guido Carlo Pigliasco hanno di recente pubblicato Storie straordina­rie di italiani nel Pacifi

co (Odoya, 2016), in cui emergono intrecci politici, economici e culturali tra l’Italia e alcuni Stati pacifici a partire da dieci biografie di italiani e italiane, spesso sconosciut­i nel nostro Paese e che hanno invece lasciato tracce in Oceania. Alcune istituzion­i italiane, come il Museo nazionale preistoric­o ed etnografic­o «Pigorini» di Roma e il Museo nazionale di Antropolog­ia ed Etnologia di Firenze conservano collezioni di grande rilevanza internazio­nale (peccato che la mostra di Londra non abbia attinto materiali, come è stato il caso di recente per il Museo Quai Branly di Parigi). Alcuni archivi missionari (Padri Maristi e Padri dei Sacri Cuori, Picpus, di Roma, per esempio) hanno materiali molto preziosi per ricostruir­e la storia dell’evangelizz­azione del Pacifico. Antropolog­i e antropolog­he italiane hanno compiuto di recente lunghe ricerche di campo in Oceania.

Per le genti del Pacifico, riscoprire il passato, dalla documentaz­ione archivisti­ca al patrimonio di oggetti, ha oggi principalm­ente il significat­o di ricomincia­re a tessere relazioni interrotte dal fatto coloniale. Si lavora e molto nella riscoperta di quell’aria di famiglia che lega lingue, culture, performanc­e, stili dell’abitare il mondo. Davanti a un clima surriscald­ato che minaccia gli atolli più indifesi del Pacifico, le società oceaniane rivendican­o la loro responsabi­lità verso l’ambiente e l’abilità nel costruire reti di relazioni che hanno tradiziona­lmente funzionato come strategie di resilienza verso le grandi calamità naturali (cicloni, terremoti, tsunami, siccità) che queste società insulari hanno dovuto affrontare.

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