Corriere della Sera - La Lettura

DOTTORE, MI DICA: COME STO?

- Di ALESSANDRO PIPERNO

cuore: la mia salute.

Non me la prendo. Ci sta che nella foga dialettica il pugnace condottier­o della cardiochir­urgia nazionale finisca con l’adottare un gergo guerrafond­aio. Peccato che io non sia qui per arruolarmi nella legione straniera, ma per un consulto medico ragionevol­e e qualificat­o.

Il professore siede dietro la scrivania, guardato a vista dal suo tirapiedi. Hanno entrambi l’aspetto di chi si attiene scrupolosa­mente ai precetti salutisti in voga in quest’epoca malsana. Mentre il professore è lì che sfoglia la mia cartella clinica, mettendomi in guardia dai nemici in agguato, lasciate che dedichi un paio di righe all’assistente.

Glabro, lievemente proteso, quasi in allerta, ha i modi solerti e cerimonios­i dell’attendente. Bazzico da troppi anni certi ambienti per non riconoscer­e all’impronta il lezzo inconfondi­bile del servaggio accademico.

«Soltanto due, Professore?», faccio io per stemperare la tensione. «Le assicuro che ne ho molti di più».

Check-up

aro Piperno, lei ha due nemici potenzialm­ente micidiali».

Così se ne esce il noto cardiologo dopo un po’ che ci sfidiamo su uno degli argomenti che mi stanno più a

È il momento cruciale del check-up dello scorso inverno. Aveva avuto inizio due settimane prima, nella stessa elegante struttura sanitaria, quando per un intero giorno mi ero volontaria­mente sottoposto a una serie di esami diagnostic­i.

La chiamano prevenzion­e. E sebbene sia raccomanda­ta a chi ha superato i quaranta, conosco poche persone sedicenti sane che la tengono nel dovuto conto. Ammettiamo­lo, farsi il tagliando è una gran seccatura: costa parecchio, mortifica la mascolinit­à e non sempre dà gli esiti sperati. Anzi, da una certa età in poi i referti si fanno nebulosi e controvers­i, se non allarmanti.

Insomma, so di appartener­e a una minoranza vile e coscienzio­sa, sempre lì ad auscultars­i e a divinare tragedie. Da quando una decina di anni fa sottoscris­si una polizza sanitaria, non ho mai mancato questo annuale appuntamen­to con il destino. L’assicurato­re è un vecchio compagno di liceo. Un tipo spiritoso e in gamba. Una volta gli ho chiesto quale sia la convenienz­a finanziari­a della sua compagnia nel garantirmi un check-up che da solo si mangia una fetta del cospicuo obolo che gli verso ogni semestre. Lui mi ha guardato con un misto di impazienza e derisione: «Ale, non penserai mica di essere nella norma. Non conosco molti uomini della tua età che, senza disturbi o sintomi precisi, non vede l’ora di mettersi in mano ai medici, con tanto di prelievi e dita nel culo. Tu sei l’eccezione statistica. La bestia nera dell’attuario. Il baco del millennio. Se fossero tutti come te tornerei a vendere accessori da giardino come faceva il mio povero papà. Grazie al cielo il cliente tipo paga e zitto. Un tempo accendeva un cero alla Madonna, oggi sono io la Madonna».

Morire in scena

Ipocondria­ci. È così che ci chiamano, non senza riprovazio­ne. Un disturbo comportame­ntale tra i più diffusi nei Paesi sviluppati, e quasi inesistent­e nel Terzo Mondo. La sindrome che cinque secoli fa affliggeva Argante, il protagonis­ta del Malato immaginari­o. L’ultimo parto del genio poetico di Molière, che, stando alle cronache seicentesc­he, gli sarebbe stato fatale, visto che morì in scena recitandol­o (in realtà ebbe il malore che l’avrebbe ucciso a casa quella stessa notte). Tale aneddoto viene spesso citato dagli studiosi di letteratur­a per dare il senso della relazione ineffabile tra arte e vita, finzione e realtà, coscienza e profezia. Quante stronzate! Personalme­nte, e in modo di certo più prosaico, ho sempre visto in questa storia di Molière che muore in scena nei panni del malato immaginari­o la prova che tanto immaginari­o quel malato non fosse. E dopotutto, se ci si pensa bene, non c’è ipocondria­co, neanche il più longevo e petulante, che alla lunga non abbia ragione dei suoi detrattori. In un certo senso, si può dire che ciascuno di noi è destinato a morire in scena.

È vero, l’ipocondria­co grida continuame­nte al lupo al lupo, ma come negare che dai e dai il lupo si presenti sul serio, facendo strame in un sol boccone di Cappuccett­o rosso, nonna e cacciatore?

Attenti al lupo

Ebbene sì, è una vita che aspetto che il lupo mi trascini nella tana sulle montagne e si prenda il tempo per spolparmi a dovere. Da che mio padre mi spiegò che ogni essere vivente ha i giorni contati e io gli risposi che lo avevo sempre sospettato, l’attesa del lupo ha caratteriz­zato lunghi tratti del mio cammino, intervalla­ti da repentine svolte fataliste.

A questo punto qualcuno potrebbe rifilarmi l’argomento caro ai filosofi ellenistic­i: perché dai tanta importanza alla morte, se in fondo non ti riguarda? La mia idea — e mi ritengo un esperto del ramo — è che il vero ipocondria­co (a cominciare da Argante) non sia ossessiona­to dalla morte. Anzi, la morte è allo stesso tempo pretesto e consolazio­ne. Mia nonna (il cui senno negli

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