Corriere della Sera - La Lettura
DOTTORE, MI DICA: COME STO?
cuore: la mia salute.
Non me la prendo. Ci sta che nella foga dialettica il pugnace condottiero della cardiochirurgia nazionale finisca con l’adottare un gergo guerrafondaio. Peccato che io non sia qui per arruolarmi nella legione straniera, ma per un consulto medico ragionevole e qualificato.
Il professore siede dietro la scrivania, guardato a vista dal suo tirapiedi. Hanno entrambi l’aspetto di chi si attiene scrupolosamente ai precetti salutisti in voga in quest’epoca malsana. Mentre il professore è lì che sfoglia la mia cartella clinica, mettendomi in guardia dai nemici in agguato, lasciate che dedichi un paio di righe all’assistente.
Glabro, lievemente proteso, quasi in allerta, ha i modi solerti e cerimoniosi dell’attendente. Bazzico da troppi anni certi ambienti per non riconoscere all’impronta il lezzo inconfondibile del servaggio accademico.
«Soltanto due, Professore?», faccio io per stemperare la tensione. «Le assicuro che ne ho molti di più».
Check-up
aro Piperno, lei ha due nemici potenzialmente micidiali».
Così se ne esce il noto cardiologo dopo un po’ che ci sfidiamo su uno degli argomenti che mi stanno più a
È il momento cruciale del check-up dello scorso inverno. Aveva avuto inizio due settimane prima, nella stessa elegante struttura sanitaria, quando per un intero giorno mi ero volontariamente sottoposto a una serie di esami diagnostici.
La chiamano prevenzione. E sebbene sia raccomandata a chi ha superato i quaranta, conosco poche persone sedicenti sane che la tengono nel dovuto conto. Ammettiamolo, farsi il tagliando è una gran seccatura: costa parecchio, mortifica la mascolinità e non sempre dà gli esiti sperati. Anzi, da una certa età in poi i referti si fanno nebulosi e controversi, se non allarmanti.
Insomma, so di appartenere a una minoranza vile e coscienziosa, sempre lì ad auscultarsi e a divinare tragedie. Da quando una decina di anni fa sottoscrissi una polizza sanitaria, non ho mai mancato questo annuale appuntamento con il destino. L’assicuratore è un vecchio compagno di liceo. Un tipo spiritoso e in gamba. Una volta gli ho chiesto quale sia la convenienza finanziaria della sua compagnia nel garantirmi un check-up che da solo si mangia una fetta del cospicuo obolo che gli verso ogni semestre. Lui mi ha guardato con un misto di impazienza e derisione: «Ale, non penserai mica di essere nella norma. Non conosco molti uomini della tua età che, senza disturbi o sintomi precisi, non vede l’ora di mettersi in mano ai medici, con tanto di prelievi e dita nel culo. Tu sei l’eccezione statistica. La bestia nera dell’attuario. Il baco del millennio. Se fossero tutti come te tornerei a vendere accessori da giardino come faceva il mio povero papà. Grazie al cielo il cliente tipo paga e zitto. Un tempo accendeva un cero alla Madonna, oggi sono io la Madonna».
Morire in scena
Ipocondriaci. È così che ci chiamano, non senza riprovazione. Un disturbo comportamentale tra i più diffusi nei Paesi sviluppati, e quasi inesistente nel Terzo Mondo. La sindrome che cinque secoli fa affliggeva Argante, il protagonista del Malato immaginario. L’ultimo parto del genio poetico di Molière, che, stando alle cronache seicentesche, gli sarebbe stato fatale, visto che morì in scena recitandolo (in realtà ebbe il malore che l’avrebbe ucciso a casa quella stessa notte). Tale aneddoto viene spesso citato dagli studiosi di letteratura per dare il senso della relazione ineffabile tra arte e vita, finzione e realtà, coscienza e profezia. Quante stronzate! Personalmente, e in modo di certo più prosaico, ho sempre visto in questa storia di Molière che muore in scena nei panni del malato immaginario la prova che tanto immaginario quel malato non fosse. E dopotutto, se ci si pensa bene, non c’è ipocondriaco, neanche il più longevo e petulante, che alla lunga non abbia ragione dei suoi detrattori. In un certo senso, si può dire che ciascuno di noi è destinato a morire in scena.
È vero, l’ipocondriaco grida continuamente al lupo al lupo, ma come negare che dai e dai il lupo si presenti sul serio, facendo strame in un sol boccone di Cappuccetto rosso, nonna e cacciatore?
Attenti al lupo
Ebbene sì, è una vita che aspetto che il lupo mi trascini nella tana sulle montagne e si prenda il tempo per spolparmi a dovere. Da che mio padre mi spiegò che ogni essere vivente ha i giorni contati e io gli risposi che lo avevo sempre sospettato, l’attesa del lupo ha caratterizzato lunghi tratti del mio cammino, intervallati da repentine svolte fataliste.
A questo punto qualcuno potrebbe rifilarmi l’argomento caro ai filosofi ellenistici: perché dai tanta importanza alla morte, se in fondo non ti riguarda? La mia idea — e mi ritengo un esperto del ramo — è che il vero ipocondriaco (a cominciare da Argante) non sia ossessionato dalla morte. Anzi, la morte è allo stesso tempo pretesto e consolazione. Mia nonna (il cui senno negli