Corriere della Sera - La Lettura
La dignità del lavoro non significa posto fisso
Per un decreto che limita i contratti a termine è fuorviante richiamare un concetto legato al rispetto che si deve a ogni essere umano. In questo caso non si tratta di evitare trattamenti pericolosi e degradanti, ma di assicurare misure protettive. Soprat
Da qualche anno è invalsa la moda di assegnare un’etichetta ad atti governativi che i governi considerano particolarmente emblematici: Salva-Italia, Jobs Act, Buona Scuola e così via. Per il suo primo provvedimento, appena approvato dalle Camere, Luigi Di Maio ha scelto un’etichetta particolarmente impegnativa: il decreto «Dignità». Si tratta di un concetto intriso di valore, etimologicamente collegato a espressioni come onore e virtù ( de
cus), grazia e bellezza ( decor), desiderabilità e convenienza ( decet). Il piatto forte del decreto è la riforma dei contratti a tempo determinato. Siamo sicuri che ci sia un collegamento fra etichetta e contenuto? Fissare un termine al rapporto di impiego costituisce davvero una violazione della dignità di un lavoratore?
Tutto dipende, naturalmente, da che cosa intendiamo per dignità. Se consideriamo le accezioni che questo concetto ha assunto nella storia del pensiero politico, l’uso che ne fa Di Maio appare però improprio e fuorviante. In dottrina, il concetto di «dignità» poggia su tre elementi. Il primo è l’eguaglianza di base di tutti gli esseri umani. Nella tradizione giudaico-cristiana, la fonte di questa eguaglianza è la filiazione divina: siamo tutti creature di Dio, legati da un’etica di fratellanza. Per la tradizione illuministica, le fonti sono coscienza e ragione, che ci rendono capaci di agire moralmente. Per le scienze naturali, apparteniamo alla stessa specie, condividiamo caratteristiche biologiche che ci separano da tutti gli altri animali.
Quale che sia la sua fonte, l’eguaglianza di base esige il reciproco rispetto (secondo elemento). Ciascun essere umano merita di essere riconosciuto come tale, di essere oggetto di considerazione indipendentemente dalle proprie particolarità. Da eguaglianza di base e rispetto deriva infine il terzo elemento: un insieme specifico di diritti (e doveri), di carattere essenzialmente «negativo»: non discriminazione, non umiliazione, non oppressione, non interferenza e così via. Questi diritti connettono la dignità alla libertà. Nella Dichiarazione universale delle Nazioni Unite (approvata nel 1948), la dignità appartiene infatti a tutti gli individui in quanto «liberi e uguali».
Come tratto essenziale e costitutivo della nostra natura, la dignità non può essere violata in nessun ambito di interazione, compreso quello lavorativo. Quando usiamo la metafora del mercato del lavoro, dobbiamo sempre ricordare che i lavoratori non sono «merci». Vi è stato un periodo storico (la prima industrializzazione) che fu effettivamente caratterizzato da una totale «mercificazione» dei lavoratori e purtroppo in molte parti del mondo è ancora così: ipersfruttamento economico, pratiche umilianti e degradanti, anche verso le donne e i bambini. In Europa, verso la fine dell’Ottocento iniziò tuttavia un «contro-movimento» (per usare l’espressione di Karl Polanyi) che ha gradualmente ma incisivamente demercificato i rapporti di lavoro, tramite regole vincolanti e soprattutto tramite il welfare pubblico.
I successi di questo processo sono innegabili, ma resta una lunga strada da percorrere, anche nella nostra Europa civilizzata. Innanzitutto, nei luoghi di lavoro persistono molte pratiche, spesso informali, che violano ancora gli standard minimi di dignità: pensiamo al
mobbing, alle umiliazioni verbali e a quelle connesse a certe forme di controllo organizzativo, alla sopravvivenza di alcuni ambienti di lavoro degradanti, insalubri, insicuri, alla richiesta di prestazioni quasi disumanizzanti, per non parlare di molestie e discriminazioni legate al genere o allo status di immigrato. I recenti incidenti di Foggia, che hanno provocato la morte di sedici extracomunitari impegnati nella raccolta dei pomodori in due scontri sulle strade, dimostrano come in una delle regioni più sviluppate del Sud il sistema del caporalato sia ancora oggi basato su pratiche di mercificazione e sfruttamento «indegne» quasi quanto i «mulini satanici» (le prime imprese tessili, così come le definì, di nuovo, Polanyi) della rivoluzione industriale. È in queste sacche del mercato del lavoro che si consumano sistematiche violazioni della dignità. Se al governo sta a cuore questo valore, lo coltivi nel contesto giusto, laddove è davvero necessario. La legge anti-caporalato del 2016, introdotta dal governo Renzi, va ad esempio rivalutata e soprattutto efficacemente applicata.
Ma veniamo al lavoro a tempo determinato. Nella misura in cui rispetta nei fatti i doveri sopra richiamati (non discriminazione, non oppressione, non umiliazione ecc.) questo tipo di contratto non viola la dignità di nessuno. È una transazione volontaria e consensuale. Se fosse vietata oppure regolata in modo da disincentivarne l’uso, non si eliminerebbe una violazione di dignità, ma una possibile fonte di reddito per chi cerca un impiego. Il lavoro a tempo determinato può diventare un problema quando riguarda primariamente alcuni gruppi sociali (come i giovani) rispetto ad altri e quando crea eccessiva vulnerabilità e insicurezza. È il caso dell’Italia di oggi: ma si tratta di una questione di equità ed esclusione sociale. Non di dignità. La distinzione è importante perché serve a orientare correttamente la scelta degli strumenti, delle misure compensative.
I contratti a termine possono generare iniquità indirette fra i dipendenti, ad esempio l’assenza di adeguata formazione o retribuzioni più basse a parità di prestazione. Tendono a escludere da alcune prestazioni sociali oppure da opportunità esterne all’impresa: ad esempio prestiti e mutui bancari. Esclusioni che limitano l’autonomia economica e sociale delle persone, con effetti a cascata in altri ambiti, in particolare la formazione di coppie e la procreazione. Ma in che misura è lecito e corretto imputare queste esternalità negative ai rapporti contrattuali a termine e non piuttosto al sistema di welfare? Come si è detto più sopra, nella storia del Novecento gli effetti negativi della mercificazione del lavoro sono stati contrastati principalmente attraverso lo Stato sociale, costruendo una base universalistica di misure protettive e preventive volte a ridurre vulnerabilità e insicurezza, parificare le opportunità, aumentare le capacità delle persone in forme e con risorse il più possibile indipendenti dalla loro posizione lavorativa. Certo, anche nei Paesi con sistemi di welfare universalistici esistono regole che riguardano i contratti. Ma in quei contesti la precarietà lavorativa non genera le esasperate patologie psico-sociali che caratterizzano l’Italia di oggi. Il rischio «vulnerabilità» è stato socializzato: siccome riguarda potenzialmente tutti i cittadini (anche solo come genitori di giovani disoccupati, sotto-occupati o con contratti a termine), è giusto che lo Stato intervenga per ridistribuire opportunità e risorse, chiedendo a tutti un contributo finanziario.
Impostare la sfida della precarietà come una questione di equità e di esclusione aiuta a individuare con maggiore chiarezza le radici del problema e dunque le risposte più efficaci. Impostare la sfida in chiave di dignità è invece un doppio errore. Offusca quegli aspetti del nostro mercato del lavoro che davvero sollevano ancora gravi questioni di dignità; usa divieti e restrizioni nella sfera contrattuale per contrastare i difetti di protezione e prevenzione del nostro Stato sociale, che sollevano invece questioni di equità e solidarietà. Nomina sunt omi
na, dicevano i latini: i nomi sono presagi. Il destino di una politica pubblica e soprattutto il suo successo dipendono anche dalle parole e dai concetti che si usano. Sotto questo profilo, non sembra proprio che il ministro del Lavoro, anche se bene intenzionato, abbia cominciato con il piede giusto.