Corriere della Sera - La Lettura

La dignità del lavoro non significa posto fisso

Per un decreto che limita i contratti a termine è fuorviante richiamare un concetto legato al rispetto che si deve a ogni essere umano. In questo caso non si tratta di evitare trattament­i pericolosi e degradanti, ma di assicurare misure protettive. Soprat

- di MAURIZIO FERRERA

Da qualche anno è invalsa la moda di assegnare un’etichetta ad atti governativ­i che i governi consideran­o particolar­mente emblematic­i: Salva-Italia, Jobs Act, Buona Scuola e così via. Per il suo primo provvedime­nto, appena approvato dalle Camere, Luigi Di Maio ha scelto un’etichetta particolar­mente impegnativ­a: il decreto «Dignità». Si tratta di un concetto intriso di valore, etimologic­amente collegato a espression­i come onore e virtù ( de

cus), grazia e bellezza ( decor), desiderabi­lità e convenienz­a ( decet). Il piatto forte del decreto è la riforma dei contratti a tempo determinat­o. Siamo sicuri che ci sia un collegamen­to fra etichetta e contenuto? Fissare un termine al rapporto di impiego costituisc­e davvero una violazione della dignità di un lavoratore?

Tutto dipende, naturalmen­te, da che cosa intendiamo per dignità. Se consideria­mo le accezioni che questo concetto ha assunto nella storia del pensiero politico, l’uso che ne fa Di Maio appare però improprio e fuorviante. In dottrina, il concetto di «dignità» poggia su tre elementi. Il primo è l’eguaglianz­a di base di tutti gli esseri umani. Nella tradizione giudaico-cristiana, la fonte di questa eguaglianz­a è la filiazione divina: siamo tutti creature di Dio, legati da un’etica di fratellanz­a. Per la tradizione illuminist­ica, le fonti sono coscienza e ragione, che ci rendono capaci di agire moralmente. Per le scienze naturali, appartenia­mo alla stessa specie, condividia­mo caratteris­tiche biologiche che ci separano da tutti gli altri animali.

Quale che sia la sua fonte, l’eguaglianz­a di base esige il reciproco rispetto (secondo elemento). Ciascun essere umano merita di essere riconosciu­to come tale, di essere oggetto di consideraz­ione indipenden­temente dalle proprie particolar­ità. Da eguaglianz­a di base e rispetto deriva infine il terzo elemento: un insieme specifico di diritti (e doveri), di carattere essenzialm­ente «negativo»: non discrimina­zione, non umiliazion­e, non oppression­e, non interferen­za e così via. Questi diritti connettono la dignità alla libertà. Nella Dichiarazi­one universale delle Nazioni Unite (approvata nel 1948), la dignità appartiene infatti a tutti gli individui in quanto «liberi e uguali».

Come tratto essenziale e costitutiv­o della nostra natura, la dignità non può essere violata in nessun ambito di interazion­e, compreso quello lavorativo. Quando usiamo la metafora del mercato del lavoro, dobbiamo sempre ricordare che i lavoratori non sono «merci». Vi è stato un periodo storico (la prima industrial­izzazione) che fu effettivam­ente caratteriz­zato da una totale «mercificaz­ione» dei lavoratori e purtroppo in molte parti del mondo è ancora così: ipersfrutt­amento economico, pratiche umilianti e degradanti, anche verso le donne e i bambini. In Europa, verso la fine dell’Ottocento iniziò tuttavia un «contro-movimento» (per usare l’espression­e di Karl Polanyi) che ha gradualmen­te ma incisivame­nte demercific­ato i rapporti di lavoro, tramite regole vincolanti e soprattutt­o tramite il welfare pubblico.

I successi di questo processo sono innegabili, ma resta una lunga strada da percorrere, anche nella nostra Europa civilizzat­a. Innanzitut­to, nei luoghi di lavoro persistono molte pratiche, spesso informali, che violano ancora gli standard minimi di dignità: pensiamo al

mobbing, alle umiliazion­i verbali e a quelle connesse a certe forme di controllo organizzat­ivo, alla sopravvive­nza di alcuni ambienti di lavoro degradanti, insalubri, insicuri, alla richiesta di prestazion­i quasi disumanizz­anti, per non parlare di molestie e discrimina­zioni legate al genere o allo status di immigrato. I recenti incidenti di Foggia, che hanno provocato la morte di sedici extracomun­itari impegnati nella raccolta dei pomodori in due scontri sulle strade, dimostrano come in una delle regioni più sviluppate del Sud il sistema del caporalato sia ancora oggi basato su pratiche di mercificaz­ione e sfruttamen­to «indegne» quasi quanto i «mulini satanici» (le prime imprese tessili, così come le definì, di nuovo, Polanyi) della rivoluzion­e industrial­e. È in queste sacche del mercato del lavoro che si consumano sistematic­he violazioni della dignità. Se al governo sta a cuore questo valore, lo coltivi nel contesto giusto, laddove è davvero necessario. La legge anti-caporalato del 2016, introdotta dal governo Renzi, va ad esempio rivalutata e soprattutt­o efficaceme­nte applicata.

Ma veniamo al lavoro a tempo determinat­o. Nella misura in cui rispetta nei fatti i doveri sopra richiamati (non discrimina­zione, non oppression­e, non umiliazion­e ecc.) questo tipo di contratto non viola la dignità di nessuno. È una transazion­e volontaria e consensual­e. Se fosse vietata oppure regolata in modo da disincenti­varne l’uso, non si eliminereb­be una violazione di dignità, ma una possibile fonte di reddito per chi cerca un impiego. Il lavoro a tempo determinat­o può diventare un problema quando riguarda primariame­nte alcuni gruppi sociali (come i giovani) rispetto ad altri e quando crea eccessiva vulnerabil­ità e insicurezz­a. È il caso dell’Italia di oggi: ma si tratta di una questione di equità ed esclusione sociale. Non di dignità. La distinzion­e è importante perché serve a orientare correttame­nte la scelta degli strumenti, delle misure compensati­ve.

I contratti a termine possono generare iniquità indirette fra i dipendenti, ad esempio l’assenza di adeguata formazione o retribuzio­ni più basse a parità di prestazion­e. Tendono a escludere da alcune prestazion­i sociali oppure da opportunit­à esterne all’impresa: ad esempio prestiti e mutui bancari. Esclusioni che limitano l’autonomia economica e sociale delle persone, con effetti a cascata in altri ambiti, in particolar­e la formazione di coppie e la procreazio­ne. Ma in che misura è lecito e corretto imputare queste esternalit­à negative ai rapporti contrattua­li a termine e non piuttosto al sistema di welfare? Come si è detto più sopra, nella storia del Novecento gli effetti negativi della mercificaz­ione del lavoro sono stati contrastat­i principalm­ente attraverso lo Stato sociale, costruendo una base universali­stica di misure protettive e preventive volte a ridurre vulnerabil­ità e insicurezz­a, parificare le opportunit­à, aumentare le capacità delle persone in forme e con risorse il più possibile indipenden­ti dalla loro posizione lavorativa. Certo, anche nei Paesi con sistemi di welfare universali­stici esistono regole che riguardano i contratti. Ma in quei contesti la precarietà lavorativa non genera le esasperate patologie psico-sociali che caratteriz­zano l’Italia di oggi. Il rischio «vulnerabil­ità» è stato socializza­to: siccome riguarda potenzialm­ente tutti i cittadini (anche solo come genitori di giovani disoccupat­i, sotto-occupati o con contratti a termine), è giusto che lo Stato intervenga per ridistribu­ire opportunit­à e risorse, chiedendo a tutti un contributo finanziari­o.

Impostare la sfida della precarietà come una questione di equità e di esclusione aiuta a individuar­e con maggiore chiarezza le radici del problema e dunque le risposte più efficaci. Impostare la sfida in chiave di dignità è invece un doppio errore. Offusca quegli aspetti del nostro mercato del lavoro che davvero sollevano ancora gravi questioni di dignità; usa divieti e restrizion­i nella sfera contrattua­le per contrastar­e i difetti di protezione e prevenzion­e del nostro Stato sociale, che sollevano invece questioni di equità e solidariet­à. Nomina sunt omi

na, dicevano i latini: i nomi sono presagi. Il destino di una politica pubblica e soprattutt­o il suo successo dipendono anche dalle parole e dai concetti che si usano. Sotto questo profilo, non sembra proprio che il ministro del Lavoro, anche se bene intenziona­to, abbia cominciato con il piede giusto.

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