Corriere della Sera - La Lettura
Costruire/demolire Il destino dell’uomo
L’intervista Coreografo con padre marocchino e madre fiamminga, esploratore delle fedi, Sidi Larbi Cherkaoui aprirà TorinoDanza. «La vita è uguale alla creta: se vuoi modellarla, devi disfare la forma precedente»
Nel suo cognome — «sole che sale a est» in arabo — c’è già il destino di un pellegrino di successo: Sidi Larbi Cherkaoui, il coreografo che sorge a Oriente (ma risplende in Occidente), viaggia nel cosmo facendo danzare frattali e pianeti, numeri e lettere, monaci Shaolin e ballerine di flamenco. I suoi lavori, una cinquantina, hanno un piede a est, l’altro a ovest, si inginocchiano in molte chiese e declinano il corpo in una Babele linguistica che si interroga sul potere della parola, sull’impatto della propaganda politica sull’essere umano, sul ruolo dell’amore come esercizio di libero arbitrio sentimentale in una società emotivamente asettica, sulle molte sfaccettature e i paradossi della cultura islamica.
Nato nel 1976 ad Anversa da padre marocchino e madre fiamminga, si è avvicinato tardivamente alla danza, all’età di sedici anni, folgorato da un video della cantante-ballerina Kate Bush, e ha coltivato una speciale sensibilità per l’estetica mediorientale, dalla calligrafia all’architettura, ai mosaici costruiti con logica matematica, da lui tradotti in movimento. Dopo aver frequentato la scuola coranica, ha incrociato il Belgio visionario di Alain Platel — che è diventato suo mentore e l’ha lanciato come autore — e si è forgiato alla P.A.R.T.S. di Bruxelles, la scuola di danza contemporanea della coreografa Anne Teresa De Keersmaeker. Nella sua traiettoria ondivaga tra danza, teatro, prosa, videoart, si è imbattuto nel collega Akram Khan (con cui ha duettato in Zero Degrees), nell ’a r t i s t a Marina Abramovic (scenografa del suo Boléro per l ’ Opéra de Par i s ) , nel l a pop s t a r Beyoncé e nel rapper Jay-z (è lui il coreografo del controverso videoclip Apeshit ambientato al Louvre), nel pensiero del linguista e filosofo Noam Chomsky, dalle
cui parole ha tratto Fractus V, sul conflitto tra informazione e manipolazione. Mentre il Royal Ballet, il Théâtre National de Bretagne, la Göteborgsoperans Danskompani gli hanno commissionato nuove creazioni, TorinoDanza se l’è aggiudicato per inaugurare la nuova edizione, il 10 settembre al Teatro Regio del capoluogo piemontese.
A TorinoDanza è legato da un progetto triennale. C’è una relazione tra i due lavori del dittico «Noetic/Icon» che apre quest’edizione?
«Quando ho lasciato la direzione del festival Equilibrio a Roma, mi era dispiaciuto non portare in Italia alcuni miei titoli che ora presenterò a TorinoDanza insieme a due creazioni. C’è una linea dialettica che lega Noetic e Icon, entrambi scaturiti dalla collaborazione con il visual artist Antony Gormley: Noetic (filosofia metafisica) riflette sul modo in cui siamo legati, utilizzando metaforicamente lunghe aste in fibra di carbonio che si flettono in geometrie composite con cui i danzatori creano illusioni visive. In Icon l’elemento dell’argilla pone l’accento sulla gravità e i ballerini vengono rimodellati in scena, ricoperti dal calco di creta, fino a diventare argilla».
Nei testi religiosi, l’argilla è la materia simbolica della creazione del corpo. C’è un richiamo a quest’idea nella sua visione?
«Assolutamente sì. Ho riletto la storia dell’uomo attraverso la relazione con gli oggetti. L’umanità ha costruito con l’argilla molti degli oggetti che usiamo ancora oggi nella vita contemporanea. Ma è molto interessante come la creta sia connessa all’idea stessa di creazione e del corpo umano».
Nel giudaismo e nell’islam è bandita la costruzione di forme di immagini di esseri viventi, per il potere della scultura di controllarci. Sono ancora nei nostri occhi le immagini della distruzione dei templi di Palmira da parte dell’Isis…
«Viviamo oscillando costantemente tra i poli della costruzione e della distruzione. Creiamo icone, ne distruggiamo altre, costruiamo una società e la dissolviamo, per un milione di ragioni. C’è un costante movimento di strutturazione e destrutturazione nella storia dell’umanità. E come la creta: se vuoi modellarla, devi disfare la forma precedente».
Nell’induismo la danza cosmica di Shiva, il cosiddetto «tandava», determina cicli universali di nascita, movimento e morte. Secondo lei, quale ciclo stiamo vivendo ora?
«La mia impressione è che viviamo un’epoca piuttosto distruttiva, sia a livello politico, in cui il sistema distrugge alcu- ne democrazie, sia a livello ambientale. Stanno sorgendo nuovi miti e modi nuovi di vedere le cose, mentre ci si sforza di preservare alcuni valori basilari, per tramandare una memoria di chi eravamo alle prossime generazioni. Stiamo abusando della Terra e della natura attraverso uno sviluppo urbano esasperato e la produzione di una quantità enorme di rifiuti. Nel pianeta, siamo in bilico: alcuni contrasti possono peggiorare oppure migliorare, in Europa e negli Stati Uniti si sta diffondendo la percezione che se si va oltre non si potrà più tornare indietro, mentre l’Africa si sviluppa e si moltiplica. Stiamo già facendo i conti con gravi ripercussioni sul pianeta, ma personalmente mi sforzo di coltivare un atteggiamento positivo: ci sono ancora persone che si interrogano su come l’umanità possa uscire da questa situazione. In alcuni momenti della storia umana, il senso comune e la logica hanno finito per cooperare per aggiustare le cose. Possiamo ancora raddrizzare la situazione votando per la gente giusta, combattendo per certi valori in cui crediamo».
In «Noetic» c’è l’idea del cerchio, simbolo sacro nella Kabala, nel Tantra, nell’architettura islamica. La geometria, dunque, come possibilità formale di creare relazioni tra i corpi…
«Sì, in Noetic i danzatori fluttuano attraverso due, tre dimensioni di cui il cerchio è il centro. Mi sono ispirato al Fiore della Vita, una specifica geometria sacra che esalta il potere segreto dei numeri. Viviamo in un mondo piatto, in cui abbiamo bisogno di linee sul marciapiede per muoverci in un universo che pone l’uomo al centro di tutto. Non lo credo affatto: non siamo il centro del mondo, ne siamo semplicemente parte e il nostro corpo è una maschera aperta come l’argilla di Icon. In Babel avevo lavorato con il collega Damien Jalet sul tema del territorio, delle lingue e sull’illusione delle linee di separazione tra una terra e l’altra, che genera conflitti e un frazionamento di culture. Aspetti che coesistono nello spazio e narrano la complessità del mondo».
Nei suoi spettacoli attraversa le religioni. Questo viaggio riflette il suo percorso personale?
«Certo, anche se il mio sguardo sul mondo è il più realistico possibile. Sono cresciuto musulmano, da parte di padre, e ho ricevuto una formazione scientifica a scuola, assimilando dalla tv molte influenze dello scintoismo e del buddhismo racchiuse nei cartoon giapponesi e nei film cinesi. Poi mi sono avvicinato all’India e alle molteplici divinità dell’induismo. Ho sempre tentato di mettere in relazione le religioni, come avviene nel sud dell’Italia, dove nei paesi la gente è devota a più santi. Un ampio spettro di entità, archetipi. Amo il paradosso delle religioni monoteiste, dove si suppone che ci sia un solo dio, però allo stesso tempo molte figure sacre governano aspetti delle nostre vite».
Come danzatore, la sua flessibilità sfiora un contorsionismo che suggerisce possibilità infinite di movimento...
«Ho sempre cercato di spingermi oltre i limiti fisici, vedendo la connessione tra corpo e mente. A un corpo flessibile corrisponde una mente elastica. Solo la paura può bloccare le potenzialità dell’uomo».