Corriere della Sera - La Lettura
Per una civiltà eco-sostenibile Il catastrofismo produttivo
Si è fatto molto affollato, negli ultimi tempi, il fronte degli scienziati arrivati alla conclusione che il nostro modello di sviluppo abbia superato l’orlo del baratro ecologico. E che dunque l’umanità dovrebbe interrogarsi su come affrontare l’inevitabi
«La cosa più efficace che una persona può fare per contrastare il riscaldamento globale, è suicidarsi ». Queste parole, pronunciate senza traccia di ironia, sono quelle che il giornalista americano Roy Scranton ha scelto per accompagnare l’uscita del suo nuovo saggio, We’re Doomed, Now What? («Siamo condannati, e adesso?»), in cui esplora le ragioni per cui il riscaldamento globale è ormai destinato a cambiare per sempre il mondo in cui viviamo. Contrariamente a quanto le sue parole potrebbero far pensare, però, Scranton non incarna lo stereotipo del predicatore allucinato che si incatena agli alberi urlando che «la fine è vicina»; appartiene piuttosto a un fronte sempre più nutrito di studiosi che negli ultimi anni sono giunti alla conclusione che l’umanità abbia già superato l’orlo del baratro, e che dunque dovrebbe cominciare a interrogarsi su come affrontare l’inevitabile discesa.
L’estate è un periodo ideale per parlare di riscaldamento globale. I notiziari, le riviste e gli account social tornano ad occuparsi dell’argomento, le stesse persone che di solito fanno spallucce difronte all’ acidificazione degli oceani e allo scioglimento dei ghiacci, sono più disposte a interessarsi (e preoccuparsi). Il motivo è semplice: fa caldo, un caldo chiaramente anomalo, quasi intollerabile. Quest’anno, poi, la gravità della situazione è ancora più evidente: ad Atene gli incendi hanno ucciso un centinaio di persone, in California i wildfire hanno raggiunto un’estensione inedita nella storia. Non solo: gli allagamenti in Giappone hanno costretto alla fuga più di un milione di abitanti, l’Europa è stata travolta da un’ondata di caldo record, e intanto la calotta polare artica sta facendo la fine del ghiaccio nel gin tonic.
Di fronte a campanelli d’allarme come questi, fino a poco tempo fa si formavano due fronti: da un lato chi sceglieva di ignorare o negare la questione, dall’altro chi si impegnava a lottare. Oggi, con l’accordo di Parigi in bilico, sempre più persone si schierano su un terzo fronte: quello del catastrofismo produttivo. Tra queste c’è il filosofo americano Timothy Morton che, nel suo saggio Iperoggetti (uscito quest’anno in Italia per Nero Edizioni), arriva a sostenere che il «nostro» mondo sia già finito. Per secoli, sostiene Morton, l’umanità ha agito nella convinzione di poter esercitare una sorta di controllo sulla Natura — intesa come piattaforma che ne garantisce la sopravvivenza — quando in realtà il concetto stesso di Natura, o di ambiente, è illusorio: l’uomo è solo una delle componenti interconnesse del mondo in cui vive, e pertanto non è nella posizione di esercitare alcun effettivo controllo su di esso. Se da un lato è vero che la civiltà umana, a partire dalla rivoluzione industriale, ha innescato una serie di mutamenti macroscopici, che secondo alcuni sta decretando il passaggio a una nuova era geologica (il cosiddetto Antropocene), dall’altro non ha alcuna possibilità di guidare la direzione di questa trasformazione.
Per quanto questo concetto di «fine del mondo» abbia una connotazione più ontologica che ecologica, la teoria degli iperoggetti di Morton può aiutarci a capire perché potremmo avere già superato il punto di non ritorno. Per «iperoggetto» si intende un’entità talmente distribuita nello spazio e nel tempo da non poter essere incorniciata o osservata dall’esterno. Il riscaldamento globale, in questo senso, non è una sorta di macchinario inquinante che può essere acceso o spento, è il prodotto di un ventaglio di variabili interdipendenti così ampio da non poter essere inquadrato in un solo sguardo. In parole povere: il riscaldamento globale è di per sé invisibile, l’unica cosa tracciabile sono i suoi effetti, che spesso si manifestano quando è troppo tardi. Basti pensare che se anche oggi riuscissimo a bloccare ogni emissione di anidride carbonica, ci potrebbero volere secoli perché quella esistente venga riassorbita.
I primi allarmi sul cambiamento climatico risalgono
agli anni Ottanta. E già allora gli scienziati, come i politici, prefiguravano scenari catastrofici: estinzioni di massa, città avvolte in nebbie irrespirabili, coste allagate, siccità e carestie. Tutte cose che di fatto stanno succedendo ma che risultano molto meno visibili di quanto preventivato. L’errore di quelle narrazioni era lasciare intendere che simili trasformazioni sarebbero avvenute dalla sera alla mattina, mentre sono il prodotto di una transizione non lineare, distribuita nello spazio e nel tempo, e perciò impossibile da incorniciare.
Gli studi più autorevoli, tra cui uno pubblicato da Adrian Raftery su «Nature Climate Change» nel 2017, sostengono che abbiamo solo il 5% di probabilità di mantenere il riscaldamento globale entro i famigerati 2 gradi al di sopra del livello pre-industriale, e anche in quel caso gli effetti tanto paventati sarebbero semplicemente spalmati su un periodo più lungo. Per ottenere un simile risultato, ad ogni modo, sarebbero necessari enormi sacrifici: non si tratta di cambiare lampadine, alternare targhe e spegnere condizionatori, ma di riconcepire il nostro modo di stare al mondo. E dato che ben pochi, tra i grandi attori del panorama mondiale, sembrano disposti a questo sacrificio, i pronostici non sono buoni. Stando ai dati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, lo scenario più ottimistico prevede un aumento di 3 gradi, il che porterebbe a un innalzamento degli oceani tale da sommergere molte città costiere.
È tutto perduto, dunque? Nonostante la gravità della situazione, anche tra i più allarmisti molti rifiutano di gettare la spugna. Ma poniamo che i catastrofisti come Morton e Scranton abbiano ragione: ipotizziamo di aver già superato il punto di non ritorno. Che cosa ci rimane da fare?
Nel saggio Climate Leviathan, Geoff Mann e Joel Wainwright prefigurano uno scenario geopolitico in cui l’inasprirsi delle catastrofi ambientali porterà le società capitaliste a creare una nuova forma di governo planetario (un «leviatano climatico», appunto) che introdurrà misure autoritarie «nell’interesse della vita sulla Terra», che in realtà serviranno a garantire alle élite di salvaguardare il proprio stile di vita. Mann e Wainwright sostengono sia necessario anticipare questo scenario creando un movimento globale dal basso — ispirato alla Blockadia teorizzata da Naomi Klein nel suo Una rivolu
zione ci salverà — che «sovverta la politica economica fossile e capitalista in nome di una nuova relazione con la comunità e l’ambiente».
La questione della «salvaguardia dello stile di vita occidentale», del resto, è centrale per capire come mai, nonostante decenni di allarmi, ancora fatichiamo a levare le ruote della società globale dal pantano delle emissioni sregolate. Perché se è vero che la responsabilità maggiore ricade su imprese e governi, è anche vero che spesso anche noi siamo disposti a bendarci gli occhi pur di non abbandonare il nostro stile di vita.
Nel 2016, Leonardo DiCaprio ha collaborato a un documentario intitolato Before the Flood, il cui obiettivo era mostrare gli effetti già visibili del riscaldamento globale. Da un punto di vista espositivo, l’opera funziona: si passa dai ghiacci sciolti dell’Artico canadese all’elevazione delle strade per evitare gli allagamenti a Miami, ai cimiteri di corallo sul fondale dei Caraibi. A un tratto, però, la pellicola prende una piega surreale. DiCaprio decide di mostrare alcune sequenze delle riprese sul set di Revenant: la troupe si ritrova nella snowbelt canadese, dove dovrebbe girare delle sequenze nella neve, il problema è che la neve non c’è più. Per ovviare all’inconveniente, il regista Iñárritu e i colleghi pensano bene di trasferire l’intero baraccone nella Terra del Fuoco, dall’altra parte del mondo: una troupe di 200 persone trasportata per quasi 14 mila chilometri. Il passaggio si conclude con DiCaprio e Iñárritu che riflettono con sguardo mesto su come probabilmente i loro nipoti non avranno la fortuna di vedere la neve. A nessuno dei due passa per l’anticamera del cervello che, per poter essere lì a lamentarsi del riscaldamento globale, hanno immesso un enorme quantitativo di CO2 nell’atmosfera.
Questo aneddoto sfiora il grottesco, ma la stessa tendenza si trova ovunque in Occidente. Il punto su cui i catastrofisti produttivi concordano è che lo stile di vita dei Paesi più ricchi non sia sostenibile, non lo sia mai stato e lo sarà sempre di meno. L’utilizzo spregiudicato di combustibili fossili, l’abitudine a prendere aerei e spostarsi in auto, la climatizzazione di qualsiasi ambiente, il consumo di suolo e di foreste per coltivazioni intensive, la proporzione di carne rossa nella dieta: questo «mondo», in un certo senso, è già finito. Nel suo saggio del 2013, Learning to Die in the Anthro
pocene, Roy Scranton fornisce uno spunto di ragionamento interessante, per quanto non del tutto condivisibile. «Imparare a morire come individui significa rinunciare alle nostre predisposizioni e alle nostre paure. Imparare a morire come civiltà significa rinunciare a questo particolare modo di vivere e a concetti come identità, libertà, successo e progresso». L’essere umano fa i conti con la morte fin dalle origini della storia, ma non si è mai trovato a dover fare i conti con la possibile fine della propria civiltà. Questa incerta fase di transizione potrebbe essere l’occasione per sviluppare una nuova etica dei consumi che tenga conto della verità, ormai inaggirabile, che anche la società in cui viviamo ha una data di scadenza.