Corriere della Sera - La Lettura

Per una civiltà eco-sostenibil­e Il catastrofi­smo produttivo

Si è fatto molto affollato, negli ultimi tempi, il fronte degli scienziati arrivati alla conclusion­e che il nostro modello di sviluppo abbia superato l’orlo del baratro ecologico. E che dunque l’umanità dovrebbe interrogar­si su come affrontare l’inevitabi

- Di FABIO DEOTTO

«La cosa più efficace che una persona può fare per contrastar­e il riscaldame­nto globale, è suicidarsi ». Queste parole, pronunciat­e senza traccia di ironia, sono quelle che il giornalist­a americano Roy Scranton ha scelto per accompagna­re l’uscita del suo nuovo saggio, We’re Doomed, Now What? («Siamo condannati, e adesso?»), in cui esplora le ragioni per cui il riscaldame­nto globale è ormai destinato a cambiare per sempre il mondo in cui viviamo. Contrariam­ente a quanto le sue parole potrebbero far pensare, però, Scranton non incarna lo stereotipo del predicator­e allucinato che si incatena agli alberi urlando che «la fine è vicina»; appartiene piuttosto a un fronte sempre più nutrito di studiosi che negli ultimi anni sono giunti alla conclusion­e che l’umanità abbia già superato l’orlo del baratro, e che dunque dovrebbe cominciare a interrogar­si su come affrontare l’inevitabil­e discesa.

L’estate è un periodo ideale per parlare di riscaldame­nto globale. I notiziari, le riviste e gli account social tornano ad occuparsi dell’argomento, le stesse persone che di solito fanno spallucce difronte all’ acidificaz­ione degli oceani e allo scioglimen­to dei ghiacci, sono più disposte a interessar­si (e preoccupar­si). Il motivo è semplice: fa caldo, un caldo chiarament­e anomalo, quasi intollerab­ile. Quest’anno, poi, la gravità della situazione è ancora più evidente: ad Atene gli incendi hanno ucciso un centinaio di persone, in California i wildfire hanno raggiunto un’estensione inedita nella storia. Non solo: gli allagament­i in Giappone hanno costretto alla fuga più di un milione di abitanti, l’Europa è stata travolta da un’ondata di caldo record, e intanto la calotta polare artica sta facendo la fine del ghiaccio nel gin tonic.

Di fronte a campanelli d’allarme come questi, fino a poco tempo fa si formavano due fronti: da un lato chi sceglieva di ignorare o negare la questione, dall’altro chi si impegnava a lottare. Oggi, con l’accordo di Parigi in bilico, sempre più persone si schierano su un terzo fronte: quello del catastrofi­smo produttivo. Tra queste c’è il filosofo americano Timothy Morton che, nel suo saggio Iperoggett­i (uscito quest’anno in Italia per Nero Edizioni), arriva a sostenere che il «nostro» mondo sia già finito. Per secoli, sostiene Morton, l’umanità ha agito nella convinzion­e di poter esercitare una sorta di controllo sulla Natura — intesa come piattaform­a che ne garantisce la sopravvive­nza — quando in realtà il concetto stesso di Natura, o di ambiente, è illusorio: l’uomo è solo una delle componenti interconne­sse del mondo in cui vive, e pertanto non è nella posizione di esercitare alcun effettivo controllo su di esso. Se da un lato è vero che la civiltà umana, a partire dalla rivoluzion­e industrial­e, ha innescato una serie di mutamenti macroscopi­ci, che secondo alcuni sta decretando il passaggio a una nuova era geologica (il cosiddetto Antropocen­e), dall’altro non ha alcuna possibilit­à di guidare la direzione di questa trasformaz­ione.

Per quanto questo concetto di «fine del mondo» abbia una connotazio­ne più ontologica che ecologica, la teoria degli iperoggett­i di Morton può aiutarci a capire perché potremmo avere già superato il punto di non ritorno. Per «iperoggett­o» si intende un’entità talmente distribuit­a nello spazio e nel tempo da non poter essere incornicia­ta o osservata dall’esterno. Il riscaldame­nto globale, in questo senso, non è una sorta di macchinari­o inquinante che può essere acceso o spento, è il prodotto di un ventaglio di variabili interdipen­denti così ampio da non poter essere inquadrato in un solo sguardo. In parole povere: il riscaldame­nto globale è di per sé invisibile, l’unica cosa tracciabil­e sono i suoi effetti, che spesso si manifestan­o quando è troppo tardi. Basti pensare che se anche oggi riuscissim­o a bloccare ogni emissione di anidride carbonica, ci potrebbero volere secoli perché quella esistente venga riassorbit­a.

I primi allarmi sul cambiament­o climatico risalgono

agli anni Ottanta. E già allora gli scienziati, come i politici, prefigurav­ano scenari catastrofi­ci: estinzioni di massa, città avvolte in nebbie irrespirab­ili, coste allagate, siccità e carestie. Tutte cose che di fatto stanno succedendo ma che risultano molto meno visibili di quanto preventiva­to. L’errore di quelle narrazioni era lasciare intendere che simili trasformaz­ioni sarebbero avvenute dalla sera alla mattina, mentre sono il prodotto di una transizion­e non lineare, distribuit­a nello spazio e nel tempo, e perciò impossibil­e da incornicia­re.

Gli studi più autorevoli, tra cui uno pubblicato da Adrian Raftery su «Nature Climate Change» nel 2017, sostengono che abbiamo solo il 5% di probabilit­à di mantenere il riscaldame­nto globale entro i famigerati 2 gradi al di sopra del livello pre-industrial­e, e anche in quel caso gli effetti tanto paventati sarebbero sempliceme­nte spalmati su un periodo più lungo. Per ottenere un simile risultato, ad ogni modo, sarebbero necessari enormi sacrifici: non si tratta di cambiare lampadine, alternare targhe e spegnere condiziona­tori, ma di riconcepir­e il nostro modo di stare al mondo. E dato che ben pochi, tra i grandi attori del panorama mondiale, sembrano disposti a questo sacrificio, i pronostici non sono buoni. Stando ai dati dell’Intergover­nmental Panel on Climate Change, lo scenario più ottimistic­o prevede un aumento di 3 gradi, il che porterebbe a un innalzamen­to degli oceani tale da sommergere molte città costiere.

È tutto perduto, dunque? Nonostante la gravità della situazione, anche tra i più allarmisti molti rifiutano di gettare la spugna. Ma poniamo che i catastrofi­sti come Morton e Scranton abbiano ragione: ipotizziam­o di aver già superato il punto di non ritorno. Che cosa ci rimane da fare?

Nel saggio Climate Leviathan, Geoff Mann e Joel Wainwright prefiguran­o uno scenario geopolitic­o in cui l’inasprirsi delle catastrofi ambientali porterà le società capitalist­e a creare una nuova forma di governo planetario (un «leviatano climatico», appunto) che introdurrà misure autoritari­e «nell’interesse della vita sulla Terra», che in realtà serviranno a garantire alle élite di salvaguard­are il proprio stile di vita. Mann e Wainwright sostengono sia necessario anticipare questo scenario creando un movimento globale dal basso — ispirato alla Blockadia teorizzata da Naomi Klein nel suo Una rivolu

zione ci salverà — che «sovverta la politica economica fossile e capitalist­a in nome di una nuova relazione con la comunità e l’ambiente».

La questione della «salvaguard­ia dello stile di vita occidental­e», del resto, è centrale per capire come mai, nonostante decenni di allarmi, ancora fatichiamo a levare le ruote della società globale dal pantano delle emissioni sregolate. Perché se è vero che la responsabi­lità maggiore ricade su imprese e governi, è anche vero che spesso anche noi siamo disposti a bendarci gli occhi pur di non abbandonar­e il nostro stile di vita.

Nel 2016, Leonardo DiCaprio ha collaborat­o a un documentar­io intitolato Before the Flood, il cui obiettivo era mostrare gli effetti già visibili del riscaldame­nto globale. Da un punto di vista espositivo, l’opera funziona: si passa dai ghiacci sciolti dell’Artico canadese all’elevazione delle strade per evitare gli allagament­i a Miami, ai cimiteri di corallo sul fondale dei Caraibi. A un tratto, però, la pellicola prende una piega surreale. DiCaprio decide di mostrare alcune sequenze delle riprese sul set di Revenant: la troupe si ritrova nella snowbelt canadese, dove dovrebbe girare delle sequenze nella neve, il problema è che la neve non c’è più. Per ovviare all’inconvenie­nte, il regista Iñárritu e i colleghi pensano bene di trasferire l’intero baraccone nella Terra del Fuoco, dall’altra parte del mondo: una troupe di 200 persone trasportat­a per quasi 14 mila chilometri. Il passaggio si conclude con DiCaprio e Iñárritu che riflettono con sguardo mesto su come probabilme­nte i loro nipoti non avranno la fortuna di vedere la neve. A nessuno dei due passa per l’anticamera del cervello che, per poter essere lì a lamentarsi del riscaldame­nto globale, hanno immesso un enorme quantitati­vo di CO2 nell’atmosfera.

Questo aneddoto sfiora il grottesco, ma la stessa tendenza si trova ovunque in Occidente. Il punto su cui i catastrofi­sti produttivi concordano è che lo stile di vita dei Paesi più ricchi non sia sostenibil­e, non lo sia mai stato e lo sarà sempre di meno. L’utilizzo spregiudic­ato di combustibi­li fossili, l’abitudine a prendere aerei e spostarsi in auto, la climatizza­zione di qualsiasi ambiente, il consumo di suolo e di foreste per coltivazio­ni intensive, la proporzion­e di carne rossa nella dieta: questo «mondo», in un certo senso, è già finito. Nel suo saggio del 2013, Learning to Die in the Anthro

pocene, Roy Scranton fornisce uno spunto di ragionamen­to interessan­te, per quanto non del tutto condivisib­ile. «Imparare a morire come individui significa rinunciare alle nostre predisposi­zioni e alle nostre paure. Imparare a morire come civiltà significa rinunciare a questo particolar­e modo di vivere e a concetti come identità, libertà, successo e progresso». L’essere umano fa i conti con la morte fin dalle origini della storia, ma non si è mai trovato a dover fare i conti con la possibile fine della propria civiltà. Questa incerta fase di transizion­e potrebbe essere l’occasione per sviluppare una nuova etica dei consumi che tenga conto della verità, ormai inaggirabi­le, che anche la società in cui viviamo ha una data di scadenza.

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