Corriere della Sera - La Lettura
Sei poeti come Lee Masters: la Spoon River dei migranti
Il 23 agosto 1868 nacque Edgar Lee Masters: cantò i destini dietro i nomi di un cimitero A sei poeti abbiamo chiesto di immaginare le vite di sei profughi. Per dare voce a chi non ce l’ha più
Il 23 agosto di 150 anni fa nasceva Edgar Lee Masters. Ricorrenza che contiene un piccolo giallo perché l’autore, per vezzo, cavalcando l’errore di un biografo, aveva cercato di togliersi un anno, diffondendo come data non il 1868, ma il 1869. Motivi futili, di vanità, che lo studioso Herbert K. Russell ha rivelato con puntualità nella biografia pubblicata nel 2001 dalla University of Illinois Press in cui, consultando epistolari, diari, testi inediti ricostruisce l’esistenza dell’avvocato (professione che detestava) cresciuto con il desiderio di cantare la vita «di quelli che lavorano, degli atei e di tutti i tipi umani».
Nonostante negli anni precedenti Edgar Lee Masters avesse scritto poemetti storici, tragedie, sonetti in grande quantità, la sua esistenza ruotò attorno all’Antologia di Spoon River. Pubblicata nel 1916, è una sorta di Comédie humaine in versi nata sul modello ellenistico dell’Antologia Palatina, a cui si ispirarono altri prima di lui, anche il pre-romantico Thomas Gray con l’Elegia scritta in un cimitero di campagna.
Nel camposanto che ospita coloro che «dormono sulla collina» (« all, all are sleeping, sleeping, sleeping on the hill »), richiamati dal poeta a raccontare le minuzie e gli eventi delle loro vite, i tradimenti, gli inganni, i dolori, sembrano riassumersi le vicende di ogni possibile avventura umana e questo è, forse, uno dei motivi del suo successo, cominciato ancora prima dell’uscita del libro, quando i versi vennero pubblicati su un giornale di St. Louis. Ricorda Guido Davico Bonino, nella nota introduttiva dell’edizione Einaudi, che Masters, assunto in uno studio legale, scriveva le poesie ovunque si trovasse: «In tram, sui rovesci delle buste, nei margini dei giornali, sui menu dei ristoranti, e le faceva poi copiare a macchina dall’impiegato dello studio legale».
Spoon River, l’immaginario villaggio del Midwest ispirato a Petersburg e a Lewistown, i paesini in cui Edgar Lee Masters visse con la famiglia prima di trasfe- rirsi a Chicago, è diventato il nome che si dà alla scomparsa di molte persone comuni di cui, oltre a conoscere la morte, si può sapere (o immaginare) la vita. Come le migliaia di migranti perduti nel Mediterraneo o sulle altre rotte verso l’Europa, a cui spesso la sorte tragica non concede neppure di essere conosciuti per nome. A loro alcuni poeti italiani hanno voluto prestare la voce in queste pagine.
I testi dell’Antologia di Edgar Lee Masters sono epitaffi che l’autore volle scrivere con un tono che fosse «qualcosa di meno della poesia e di più della prosa». Condensano una storia, una vita, un destino in pochi versi e si intrecciano creando una comunità funebre. Morti animati da una straordinaria fame di vita, la stessa che colpì la ventiseienne Fernanda Pivano, nel 1943 prima traduttrice in italiano, su suggestione di Cesare Pavese, dell’Antologia. Fu grazie a lei che, nelle edizioni Einaudi, diventò un libro di culto per i giovani usciti dal fascismo e per le generazioni future.
Il libro di Edgar Lee Masters aveva avuto in America un successo immediato, clamoroso. L’autore, scrisse Pivano, venne paragonato «a Omero e a Zola, a Dante e a Rabelais, a Eschilo e a Byron; chi disse che era il più grande poeta americano dopo Walt Whitman e chi lo denunciò per plagio dell’Antologia Palatina », tanto che una sera ascoltando una conferenza a Chicago su di lui «rimase atterrito dalle responsabilità che gli erano state attribuite».
Tuttavia lo scrittore non sarebbe più riuscito a trovare lo stesso consenso per le sue opere successive, La nuova Spoon River e le biografie di Lincoln (che disprezzava) e di Mark Twain. Avanzavano gli sperimentalismi di una nuova generazione proiettata verso l’Europa e le elegie funebri suonavano in America come qualcosa di antico. Edgar Lee Masters morì in miseria e dimenticato nel 1950, in un cronicario di Melrose Park, cittadina della Pennsylvania. Una parabola che avrebbe meritato un altro Edgar Lee Masters.