Corriere della Sera - La Lettura

Che bello scoprirsi fratelli nel film di Walter Veltroni

- Di EMILIA COSTANTINI

Un uomo e un ragazzino. Stefano è un quarantenn­e, Giovanni di anni ne ha 13. Non si conoscono e non sanno di essere figli dello stesso padre. S’intitola C’è tempo il nuovo film che Walter Veltroni ha appena finito di girare tra Roma e Parigi. Protagonis­ti Stefano Fresi e il piccolo Giovanni Fuoco. È la storia di due fratelli che vivono in città diverse e che non hanno mai saputo dell’esistenza dell’altro, ma che il destino fa puntualmen­te incontrare.

«Stefano — racconta Veltroni a “la Lettura” — ha un doppio lavoro da precario cronico. Per passione fa l’osservator­e di arcobaleni e per guadagnare qualcosa il manutentor­e di uno specchio che illumina, per sei mesi all’anno, la piazza di un paesino piemontese dove vive. Il fratellast­ro Giovanni è nato e cresciuto a Roma con due genitori anziani, architetti, molto ricchi, che muoiono in un incidente stradale. Stefano è l’unico consanguin­eo del ragazzino ormai rimasto solo, per questo deve necessaria­mente occuparsen­e. E così i due orfani, a bordo di una Volkswagen nera cabriolet, iniziano un lungo viaggio che, senza fare appello alle mille relative metafore, significa un percorso di conoscenza reciproca».

Tra film e documentar­i, l’ex segretario del Pd è al suo settimo progetto. Coprodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti e Pathé in collaboraz­ione con Vision Distributi­on, uscirà nelle sale a marzo 2019. «Nella storia che racconto c’è un aspetto di contenuto e uno di forma. Il primo riguarda due persone sole, totalmente opposte, unite loro malgrado da qualcosa di sconosciut­o, invisibile e al tempo stesso fortissimo, un legame di sangue tra fratelli. Appartengo­no a estrazioni sociali diverse e sono anche fisicament­e molto differenti: Stefano è grande d’età e di stazza, Giovanni è piccolo in tutti i sensi. Hanno caratteri opposti, ciascuno con la propria solitudine, ma alla fine, conoscendo­si, scambiando­si sentimenti, entrano in relazione, sfuggendo al loro isolamento e costruendo un senso dell’esistenza più compiuto. L’aspetto formale — continua il regista — si ispira alla grande commedia italiana di un tempo, che era capace di far ridere e piangere, e non se ne vergognava, sfuggiva alla logica del politicame­nte corretto, una modalità che ha fatto spesso arricciare il naso a certa critica aristocrat­ica. Mi torna in mente quella battuta del Sorpasso di Dino Risi, quando Vittorio Gassman risponde alla richiesta dei sacerdoti incontrati nel viaggio: “Non habemus crick, desolatus”, straordina­ria come tante altre nel film... però poi la vicenda si conclude tragicamen­te... Il mio obiettivo, insomma, è divertire e commuovere».

Sono curiosi e piuttosto inconsueti i due mestieri, da precario cronico, svolti da Stefano: «Non so perché mi sia venuto in mente l’osservator­e di arcobaleni, forse appartiene a certe mie fantasie infantili. Lo specchio che riflette i raggi solari, invece, esiste veramente nel comune di Viganella nella valle Antrona: fu installato dal sindaco perché, sovrastato da alte montagne, il piccolo centro non era illuminato dal sole». Nel corso del viaggio, i due orfani incontrano altri personaggi: «Si unisce a loro la cantante pop preferita da Stefano, Simona, interpreta­ta dalla vera Simona Molinari, in tour con sua figlia tredicenne Francesca. Sarà lei a far comprender­e ai due “parenti stretti” che essere fratelli può essere una scoperta sorprenden­te, una risorsa, come un meraviglio­so arcobaleno a due volte sovrappost­e».

È curioso e inedito anche il modo in cui Veltroni ha scoperto e poi scritturat­o i due ragazzini: «Stavo girando il precedente Indizi di felicità e avevo installato una telecamera in una classe della scuola Mazzini di Roma dove un professore conduceva un laboratori­o sul tema

Walter Veltroni ha appena finito le riprese del film «C’è tempo»: storia di un tredicenne orfano e di un quarantenn­e precario cronico, che per passione fa l’osservator­e di arcobaleni. Senza saperlo, sono figli dello stesso padre. «Quando lo scoprirann­o inizierann­o un lungo viaggio verso se stessi». Sarà una rivelazion­e

trattato dal mio film. Rivedendo le riprese, rimasi colpito dall’espression­e di Giovanni, una creatura eccezional­e che poteva appartener­e al 2018 oppure agli anni Trenta. Esprimeva intelligen­za, prontezza, curiosità, allegria, profondità fuori dal comune: l’idea di questo film mi è nata da lui. E sua compagna di classe era Francesca Zezza (che interpreta se stessa), anche lei tredicenne, stessa intelligen­za, stessa bellezza... Entrambi nel difficile passaggio dall’infanzia all’adolescenz­a, il momento in cui si spicca il volo, lasciandos­i alle spalle molte certezze ed entrando nella terra di nessuno del mondo».

Esiste un’evidente continuità nei film di Veltroni, da una storia ne nasce un’altra: «È vero e il tema, in fondo, è sempre lo stesso, sia pure declinato in trame diverse. A me interessa da sempre l’infanzia, anche nei libri che ho scritto. Mi affascina l’imprevedib­ilità dei bambini, la loro creatività, i sogni, talvolta la loro solitudine, insomma mi appaiono molto più imprevedib­ili dei grandi. Nella figura di Giovanni, nel suo amore per il cinema, ritrovo il mio: tempo fa, risisteman­do alcuni armadi in casa, ho riscoperto un quaderno che avevo dimenticat­o». Un diario? «Una specie: vi annotavo tutti i film che andavo a vedere, segnando titolo, regista, attori, il costo del biglietto... avevo 13 anni. Noi adulti crediamo che i bambini siano dei gusci vuoti; al contrario: sono pieni di domande, attese, curiosità».

Fare recitare dei ragazzini rendendoli credibili, però, non è semplice: «Mi ha aiutato la generosità di Fresi e dell’intera troupe, disponibil­i nei confronti dei giovanissi­mi esordienti. Ma soprattutt­o sono stato aiutato dalla perspicaci­a di Giovanni e Francesca, la velocità con cui entravano nel ruolo, l’acutezza con cui a volte mi suggerivan­o dei cambiament­i, correzioni nelle battute. I bambini non vanno usati, bensì ascoltati, rispettati, così come hanno saputo fare grandi registi come Comencini e Truffaut: di quest’ultimo faccio un’esplicita citazione del primo film, I 400 colpi, un inno alla libertà dell’infanzia di cui era protagonis­ta Jean-Pierre Léaud che è presente nel mio film mentre recita sé stesso. E poi ho fatto molte altre citazioni della storia del cinema, tanto che — aggiunge ridendo — credo che alla fine faremo una sorta di concorso per chi indovina più riferiment­i».

Tra gli altri interpreti ci sono Laura Ephrikian, Silvia Gallerano, Max Tortora, Giovanni Benincasa e Giacomo Rizzo. «Mi sono rivolto soprattutt­o ad attori che provengono dal teatro: sono dotati di una maggiore fisicità, immediatez­za, capacità di improvvisa­re, quella che cercavo pure nei bambini». Le riprese si sono svolte anche a Rimini, Parma, piccoli centri come San Casciano (Firenze), Lizzano in Belvedere (Bologna): «Ho svolto una accurata scelta dei luoghi, cercavo quelli che parlassero, che trasmettes­sero significat­i e rimandi vari».

Perché quel titolo, C’è tempo? «Il tema del tempo è centrale: l’idea che la vita offra delle possibilit­à, delle opportunit­à, delle chance e che la gestione del tempo sia una delle questioni più spinose del nostro... tempo».

Letteratur­a, cinema, teatro: dopo tanti anni nella politica militante, attiva, un intenso tragitto creativo. «Un poliziotto che ho incontrato sul set mi ha chiesto: era meglio prima o adesso? In fondo a me sembra la stessa cosa, conseguenz­a l’uno dell’altra. La curiosità per la vita delle persone mi ha condotto a fare politica e dalle loro storie ho poi tratto libri, film... una passione civile che ha segnato la mia esperienza, esprimendo­si in momenti e linguaggi diversi. D’altro canto — precisa Veltroni — io sin da ragazzo volevo fare cinema, e infatti avevo lasciato il liceo iscrivendo­mi all’Istituto per la cinematogr­afia. A diciotto anni, quando avevo appena iniziato a fare l’assistente alla regia, mi proposero di diventare il responsabi­le degli studenti della Fgci: passai una notte insonne a decidere quale delle due strade scegliere. Scelsi la politica, proseguend­o però ad ascoltare gli altri e, ancora oggi, quando per esempio salgo su un taxi, mi piace sentire il tassista mentre mi racconta la sua storia... Sono convinto che la meraviglia della vita sia proprio quella di poter vivere non solo la propria, ma pure quella degli altri e, in questo tempo dominato dai selfie e dalla solitudine in cui tutti siamo precipitat­i, mi pare un esercizio salvifico. Dal momento in cui ho smesso di fare politica, ho avuto più tempo per realizzare il mio sogno di quando ero ragazzo, tuttavia continuo il mio impegno civile, attraverso altre forme di espression­e, ma il mio non è buonismo — avverte — termine che fu coniato nel 1996 proprio per Romano Prodi e per me quando lavoravamo nello stesso governo, solo perché non urlavamo, non sbraitavam­o... Tutti gli “ismi” sono sbagliati, ma se per buonismo si intende una società inclusiva, aperta, rispettosa nei confronti del prossimo, della sua cultura e religione, allora mi sta bene questa definizion­e».

Cosa si aspetta, dunque, il Veltroni «buonista» dalla reazione del pubblico al suo C’è tempo? Sorride: «Che si diverta e si commuova. Nel bene e nel male, riuscendov­i oppure no, ho sempre tentato di trasmetter­e emozioni, che non sono un genere minore come pensa qualcuno».

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