Corriere della Sera - La Lettura
Il deserto (anche politico) del Sahel
Fino alla fine dell’Ottocento intorno al lago Ciad, crocevia delle relazioni tra l’Africa sub-sahariana e il Medio Oriente, sorgeva il grande impero del Kanem. Ancora nel 1940 lo specchio d’acqua era ampio 25 mila chilometri quadrati, ridotti ora a molto meno di un decimo dalla progressiva desertificazione del Sahel. E intorno alle sue rive si vive quella che è la più grave e trascurata crisi umanitaria mondiale, che interessa quattro diversi Stati: il Ciad, il Camerun, il Niger e la Nigeria.
I dati della Fao sono impietosi: 11 milioni di persone bisognose di assistenza, 7 milioni di affamati, più di mezzo milione di bambini affetti da malnutrizione acuta, 2 milioni e mezzo di profughi. Ironia della sorte: i geologi assicurano che il bacino contiene una delle più grandi riserve al mondo di acqua dolce sotterranea. È questo lo scenario, da secoli multiculturale, al cui interno si agita con violenza dall’inizio del millennio la setta multinazionale denominata Boko Haram, che si richiama alle parole d’ordine della guerra santa e allo Stato islamico. E il cui tentativo di affermazione in sede locale illumina di una luce ancora più sinistra il rapporto del dato ambientale e climatico con il complesso della situazione.
Secondo l’esercito nigeriano, Boko Haram avrebbe avvelenato più di una volta sorgenti e pozzi. In questo caso il clima non si limita a essere l’innesco della crisi ambientale ma, divenuto esso stesso con i suoi effetti un’arma, ne incancrenisce ricorsivamente la natura, in maniera tale che non è più possibile nessuna distinzione tra quel che è naturale e quel che invece è politico.