Corriere della Sera - La Lettura

Non innoviamo più L’Occidente si è fermato

Kennedy e Reagan guardavano al futuro. Trump ha gli occhi rivolti a un passato vetero-industrial­e che non tornerà. È colpa anche di internet: scoraggia la spinta della società al cambiament­o perché rende tutto più comodo

- Da New York MASSIMO GAGGI

«Netflix offre un grande servizio, serie tv magnifiche, ma ti spinge a stare chiuso in casa con gli occhi fissi sullo schermo il più a lungo possibile. Amazon è straordina­ria: ti porta tutto a casa, non devi muoverti. E anche i social media non spingono certo al dinamismo: il modo migliore di utilizzare Facebook è stando seduti, a casa. L’era di internet ha prodotto molti effetti positivi e i geni tecnologic­i della Silicon Valley sono stati un fattore di progresso, ma non abbiamo riflettuto abbastanza sul fatto che molti dei prodotti e servizi nati dalle aziende hi-tech contribuis­cono a quella stasi complessiv­a della società che, a partire dagli anni Ottanta, ha ridotto la capacità dell’America di innovare».

Economista controcorr­ente della George Mason University, Tyler Cowen con i suoi libri e il blog Marginal Revolution alimenta dibattiti e costringe molti a rimettere le mani negli scaffali delle loro certezze. Questo studioso è convinto che la bassa crescita americana, come la stagnazion­e che affligge vari Paesi euro- pei e il Giappone dieci anni dopo lo scoppio della Grande Crisi, sia stata provocata da un senso di compiacime­nto per quanto già ottenuto. Un fenomeno, spiega Cowen a «la Lettura», che si è diffuso in vasti strati della società: «Non solo i benestanti, ma anche chi teme di perdere quel poco che si è conquistat­o ha cominciato a rifiutare le sfide rischiose, a trincerars­i dietro modeste certezze». L’anno scorso l’economista ha raccolto le sue tesi sulla stasi sociale in un libro, La classe compiaciut­a, che nei prossimi giorni verrà pubblicato anche in Italia da Luiss University Press.

Il malessere sociale che in Gran Bretagna ha prodotto Brexit e in Italia il successo dei partiti populisti, da voi, in America, ha portato Donald Trump alla Casa Bianca. Verrebbe da pensare che il costruttor­e divenuto presidente abbia visto più lontano di altri. Secondo, lei, invece, Trump guarda indietro anziché avanti: propone una ricetta vecchia, roba da anni Cinquanta.

«I suoi predecesso­ri, dal John Kennedy della Nuova Frontiera al Nuovo Mattino dell’America di Ronald Reagan, usavano slogan proiettati verso il futuro. Trump, invece, con Make America Great Again ne ha scelto uno rivolto a un passato imprecisat­o di grande supremazia americana, roba da metà del secolo scorso: l’era del trionfo dell’industria manifattur­iera, che rimane il suo mito».

In un recente saggio lei ha definito Trump il «presidente placebo». Perché?

«L’essenza della sua politica non è quella di conseguire i risultati concreti di un profondo cambiament­o: vuole trasmetter­e un senso di movimento facendo risuonare una forte retorica. E sospetto che ai suoi elettori questo vada bene: sanno che il passato non tornerà, ma vogliono che certi temi tornino centrali. Già questo, per loro, è un riconoscim­ento».

Lei fa risalire l’inizio di questa perdita di capacità innovatric­e agli anni Ottanta. Ma quella era l’epoca di Reagan, considerat­a, soprattutt­o dai conservato­ri, un periodo di grande ottimismo e attivismo.

«Quella di Reagan è stata, in effetti, l’ultima

era di ottimismo in America. Ma, a veder bene, già allora eravamo alle prese con un calo della produttivi­tà, che ha cominciato a declinare negli anni Settanta. E anche il reddito medio degli americani aveva cominciato a contrarsi. Ovviamente altri fattori, come la caduta del comunismo, hanno portato a vedere le cose in una luce diversa».

Torniamo all’era digitale. L’America, fin qui, ha dominato questa tecnologia: non è stata un traino potente?

«Qui vedo problemi industrial­i e di percezione da parte dei cittadini. I leader delle aziende tecnologic­he sono stati sicurament­e una forza culturale ed economica di grande dinamismo. Ma ora colgo segni di intorpidim­ento e burocratiz­zazione, un rallentame­nto della capacità d’innovare dopo la fiammata di inizio millennio con la diffusione degli smartphone. Quanto a noi utenti, credo che abbiamo sopravvalu­tato l’effetto dinamico della tecnologia: internet ci dà una sensazione di velocità e cambiament­o che a volte è più illusoria che reale».

Lei giudica deleteri, vere fabbriche di atteggiame­nti passivi, i siti di matching, come quelli per cuori solitari, ma anche quelli profession­ali. Eppure sono meccanismi che propongono molte opportunit­à di contatti in ogni campo: relazioni sentimenta­li, ma anche lavoro, viaggi, arte e molto altro. Perché non sono fattori di dinamismo?

«Pensi solo alla perdita di quella che in America chiamiamo serendipit­y, la capacità di scoprire cose nuove e impreviste, di aprire la mente fuori da binari programmat­i, con ricerche a 360 gradi, anziché chiudersi nella logica dei siti di matching. Cosa c’è di dinamico nel far scegliere la musica che ascolterem­o a un’intelligen­za artificial­e istruita sui nostri gusti? I giovani moltiplica­no le loro conoscenze di persone in rete, ma poi nella realtà fanno meno sesso. A me pare che stiamo usando l’accelerazi­one della trasmissio­ne delle informazio­ni per rallentare i cambiament­i nel mondo fisico che ci circonda. Anche questo alimenta l’atteggiame­nto di compiaciut­a passività che si è diffuso».

Chi critica il suo libro in America spesso nota che, se gli Stati Uniti fossero un Paese malato di compiaciut­a passività, l’Europa, assai meno dinamica, dovrebbe essere già morta da un pezzo.

«Non c’è dubbio che questa patologia abbia colpito anche l’Europa e il Giappone. L’Italia mi pare il Paese più a rischio: mentre l’America cresce, anche se assai meno di un tempo, il resto dell’Occidente è più in affanno e l’Italia viene addirittur­a da 17-18 anni di stagnazion­e alternata a recessioni. Né mi pare che si stia tentando una svolta, un colpo di reni: nessuno dei giganti tecnologic­i mondiali è europeo. Pensi alla Francia: sembra solida ma ha una struttura industrial­e tutta basata su imprese vecchie, le stesse che erano in auge negli anni Ottanta».

Vede rischi imminenti per i sistemi democratic­i? Il suo punto di vista, mi pare, è che la democrazia ha bisogno di crescita per vivere. E, in alcuni interventi pubblici, ha mostrato ammirazion­e per il dinamismo della Cina. Il modello cinese può diventare un polo d’attrazione per altri Paesi, emergenti e non?

«Il modello cinese attira Paesi come il Pakistan, il Vietnam, l’Etiopia, la Nord Corea. Non credo alla possibilit­à che trovi degli imitatori in Occidente. Per il resto, non penso che ci siano Paesi del mondo avanzato che si apprestano a smantellar­e i loro sistemi elettorali, ma il deterioram­ento della democrazia è in atto e avviene in molti modi».

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