Corriere della Sera - La Lettura
Non innoviamo più L’Occidente si è fermato
Kennedy e Reagan guardavano al futuro. Trump ha gli occhi rivolti a un passato vetero-industriale che non tornerà. È colpa anche di internet: scoraggia la spinta della società al cambiamento perché rende tutto più comodo
«Netflix offre un grande servizio, serie tv magnifiche, ma ti spinge a stare chiuso in casa con gli occhi fissi sullo schermo il più a lungo possibile. Amazon è straordinaria: ti porta tutto a casa, non devi muoverti. E anche i social media non spingono certo al dinamismo: il modo migliore di utilizzare Facebook è stando seduti, a casa. L’era di internet ha prodotto molti effetti positivi e i geni tecnologici della Silicon Valley sono stati un fattore di progresso, ma non abbiamo riflettuto abbastanza sul fatto che molti dei prodotti e servizi nati dalle aziende hi-tech contribuiscono a quella stasi complessiva della società che, a partire dagli anni Ottanta, ha ridotto la capacità dell’America di innovare».
Economista controcorrente della George Mason University, Tyler Cowen con i suoi libri e il blog Marginal Revolution alimenta dibattiti e costringe molti a rimettere le mani negli scaffali delle loro certezze. Questo studioso è convinto che la bassa crescita americana, come la stagnazione che affligge vari Paesi euro- pei e il Giappone dieci anni dopo lo scoppio della Grande Crisi, sia stata provocata da un senso di compiacimento per quanto già ottenuto. Un fenomeno, spiega Cowen a «la Lettura», che si è diffuso in vasti strati della società: «Non solo i benestanti, ma anche chi teme di perdere quel poco che si è conquistato ha cominciato a rifiutare le sfide rischiose, a trincerarsi dietro modeste certezze». L’anno scorso l’economista ha raccolto le sue tesi sulla stasi sociale in un libro, La classe compiaciuta, che nei prossimi giorni verrà pubblicato anche in Italia da Luiss University Press.
Il malessere sociale che in Gran Bretagna ha prodotto Brexit e in Italia il successo dei partiti populisti, da voi, in America, ha portato Donald Trump alla Casa Bianca. Verrebbe da pensare che il costruttore divenuto presidente abbia visto più lontano di altri. Secondo, lei, invece, Trump guarda indietro anziché avanti: propone una ricetta vecchia, roba da anni Cinquanta.
«I suoi predecessori, dal John Kennedy della Nuova Frontiera al Nuovo Mattino dell’America di Ronald Reagan, usavano slogan proiettati verso il futuro. Trump, invece, con Make America Great Again ne ha scelto uno rivolto a un passato imprecisato di grande supremazia americana, roba da metà del secolo scorso: l’era del trionfo dell’industria manifatturiera, che rimane il suo mito».
In un recente saggio lei ha definito Trump il «presidente placebo». Perché?
«L’essenza della sua politica non è quella di conseguire i risultati concreti di un profondo cambiamento: vuole trasmettere un senso di movimento facendo risuonare una forte retorica. E sospetto che ai suoi elettori questo vada bene: sanno che il passato non tornerà, ma vogliono che certi temi tornino centrali. Già questo, per loro, è un riconoscimento».
Lei fa risalire l’inizio di questa perdita di capacità innovatrice agli anni Ottanta. Ma quella era l’epoca di Reagan, considerata, soprattutto dai conservatori, un periodo di grande ottimismo e attivismo.
«Quella di Reagan è stata, in effetti, l’ultima
era di ottimismo in America. Ma, a veder bene, già allora eravamo alle prese con un calo della produttività, che ha cominciato a declinare negli anni Settanta. E anche il reddito medio degli americani aveva cominciato a contrarsi. Ovviamente altri fattori, come la caduta del comunismo, hanno portato a vedere le cose in una luce diversa».
Torniamo all’era digitale. L’America, fin qui, ha dominato questa tecnologia: non è stata un traino potente?
«Qui vedo problemi industriali e di percezione da parte dei cittadini. I leader delle aziende tecnologiche sono stati sicuramente una forza culturale ed economica di grande dinamismo. Ma ora colgo segni di intorpidimento e burocratizzazione, un rallentamento della capacità d’innovare dopo la fiammata di inizio millennio con la diffusione degli smartphone. Quanto a noi utenti, credo che abbiamo sopravvalutato l’effetto dinamico della tecnologia: internet ci dà una sensazione di velocità e cambiamento che a volte è più illusoria che reale».
Lei giudica deleteri, vere fabbriche di atteggiamenti passivi, i siti di matching, come quelli per cuori solitari, ma anche quelli professionali. Eppure sono meccanismi che propongono molte opportunità di contatti in ogni campo: relazioni sentimentali, ma anche lavoro, viaggi, arte e molto altro. Perché non sono fattori di dinamismo?
«Pensi solo alla perdita di quella che in America chiamiamo serendipity, la capacità di scoprire cose nuove e impreviste, di aprire la mente fuori da binari programmati, con ricerche a 360 gradi, anziché chiudersi nella logica dei siti di matching. Cosa c’è di dinamico nel far scegliere la musica che ascolteremo a un’intelligenza artificiale istruita sui nostri gusti? I giovani moltiplicano le loro conoscenze di persone in rete, ma poi nella realtà fanno meno sesso. A me pare che stiamo usando l’accelerazione della trasmissione delle informazioni per rallentare i cambiamenti nel mondo fisico che ci circonda. Anche questo alimenta l’atteggiamento di compiaciuta passività che si è diffuso».
Chi critica il suo libro in America spesso nota che, se gli Stati Uniti fossero un Paese malato di compiaciuta passività, l’Europa, assai meno dinamica, dovrebbe essere già morta da un pezzo.
«Non c’è dubbio che questa patologia abbia colpito anche l’Europa e il Giappone. L’Italia mi pare il Paese più a rischio: mentre l’America cresce, anche se assai meno di un tempo, il resto dell’Occidente è più in affanno e l’Italia viene addirittura da 17-18 anni di stagnazione alternata a recessioni. Né mi pare che si stia tentando una svolta, un colpo di reni: nessuno dei giganti tecnologici mondiali è europeo. Pensi alla Francia: sembra solida ma ha una struttura industriale tutta basata su imprese vecchie, le stesse che erano in auge negli anni Ottanta».
Vede rischi imminenti per i sistemi democratici? Il suo punto di vista, mi pare, è che la democrazia ha bisogno di crescita per vivere. E, in alcuni interventi pubblici, ha mostrato ammirazione per il dinamismo della Cina. Il modello cinese può diventare un polo d’attrazione per altri Paesi, emergenti e non?
«Il modello cinese attira Paesi come il Pakistan, il Vietnam, l’Etiopia, la Nord Corea. Non credo alla possibilità che trovi degli imitatori in Occidente. Per il resto, non penso che ci siano Paesi del mondo avanzato che si apprestano a smantellare i loro sistemi elettorali, ma il deterioramento della democrazia è in atto e avviene in molti modi».