Corriere della Sera - La Lettura
Non è peccato Ecco il della mente
Disimparare reset
«Atempo a tempo, chi sa sa, e chi non sa su’ danno»: è dal 1620 che si legge questo motto nel Palazzo della Sapienza dell’Università di Pisa, a rimarcare l’importanza del sapere per l’umanità. Ma vale ancora questa regola? Se si cerca su internet la frase «sapere è potere», tutte le prime risposte riguardano un omonimo videogioco. Un segno dei tempi. O l’ammissione implicita che quell’equivalenza sia un retaggio del passato. Eppure «sapere è potere» è valso per millenni: tutta la storia dell’uomo è stata orientata verso l’accumulo di conoscenze, prima opportunità di progresso. Chi sapeva ha sempre avuto maggiori chance, autorevolezza, riconoscimento sociale. Che il sapere fosse strettamente legato al potere è dimostrato dal fatto che la conoscenza è stata utilizzata per assoggettare, per mantenere altri in stato di minorità. Le grandi ideologie libertarie, non a caso, hanno sempre promosso l’acquisizione della conoscenza come primo passo per la liberazione dall’oppressione. Una delle conquiste più importanti sul piano dei diritti civili è stata l’istruzione obbligatoria. Un sapere distribuito è garanzia di un potere distribuito, cioè di democrazia.
Fino a ieri le madri hanno ripetuto ai figli la raccomandazione di studiare e prendere quel benedetto pezzo di carta che sarebbe servito a migliorare la loro posizione sociale. Poi più nulla. Il vuoto, come se del sapere si potesse fare a meno, tanto il potere aveva preso altre strade e non passava più di qui. L’accumulo di conoscenze si era fatto un bagaglio ingombrante da portarsi dietro e tutto quel peso poteva essere sostituito dalla «competenza»: una sorta di chiave d’interpretazione che poteva essere usata per aprire molte serrature.
C’è stato un momento, nel recente passato, in cui è sembrato che tutto il sapere del mondo, digitalizzato a dovere, fosse disponibile con un clic, senza fatica. Un sapere da gettonare in un gigantesco juke-box o da scaricare tra un video e un brano musicale. Insomma, una faccenda di consumo come un’altra. Invece qualcosa è cambiato, con la rapidità propria dei tempi di crisi, e ciò che appariva come una perdita irreparabile — l’obsolescenza di un sapere scontato — si sta dimostrando invece una qualità. Anzi, una necessità imprescindibile se si vuol progredire. Ora è necessario disimparare. Gli americani lo chiamano unlearning, la capacità di cancellare in fretta quello che sappiamo e che sappiamo fare, ma che non ci serve più, per lasciare posto a nuove conoscenze. Può sembrare una contraddizione, invece non è che l’amplificazione di un meccanismo del cervello: l’oblio, la selezione e la cancellazione delle informazioni inutili e persino nocive. A questo processo naturale è necessario affiancare un metodo specifico: il disimparare programmato.
Sarà il problema principale del nostro futuro — riconosce Cosimo Accoto nel saggio Il mondo dato (Egea, pagine 142, € 18) — la competenza professionale e personale più importante per far fronte a un’innovazione accelerata. Ora le virtù del non sapere vengono decantate da una società che ha bisogno di cancellare le conoscenze pregresse per imparare nozioni nuove, senza essere condizionata dalle preesistenti. Ma la potente funzione di resettare il cervello si può acquisire solo attraverso un adeguamento funzionale della mente; non più un vaso vuoto da riempire, ma metaforicamente un computer da resettare, per installare nuovi aggiornamenti. Forse domani sarà necessario aggiornare anche quella targa pisana e far sì che il danno, per chi non sa, si trasformi in merito.