Corriere della Sera - La Lettura
Anche il cibo produce alienazione Ci salvano i paesaggi agricoli toscani
«Perché lo fanno?», si chiede Wendell Berry, scrittore e agricoltore statunitense, a proposito dei contadini. Perché hanno scelto quel mestiere? Per amore del proprio lavoro, risponde. E, aggiunge, per poter passare parte della propria esistenza senza lavorare sotto padrone. Se questo sembra vero soltanto in parte — pensando all’agricoltura industriale dove padroni del lavoro sono le ditte produttrici di sementi e sostanze chimiche, l’obbligata estensione di campi e allevamenti, la dipendenza da macchinari sempre più costosi e ingombranti, la filiera commerciale che strangola la produzione — la via all’agricoltura percorsa da Berry porta con sé la forza di una visione. Attivista, ecologista, pacifista, autore di poesia e prosa, ex docente universitario illuminato durante una residenza di studio a Firenze dove comincia a capire che «forse il capolavoro supremo dell’arte toscana erano i suoi paesaggi agricoli», a metà degli anni Sessanta Berry si trasferisce nella fattoria di proprietà della sua famiglia da un paio di secoli, per prendersi cura della porzione di creato che gli è stata assegnata. Husbandry, questo il termine usato dall’autore, che implica un vincolo di subordinazione alla propria casa e alla propria terra. Nulla di romantico, Berry è solidamente pragmatico quando afferma: «Chi possiede la terra possiede il paese», o, parlando delle piccole comunità rurali, «difendere la piccola proprietà è come difendere la Costituzione americana». Una tradizione di pensiero che risale a Thoreau e al rapporto originale con la natura indicato da Emerson, e che trova espressioni analoghe nel britannico John Seymour e nel giapponese Fukuoka, contadini-filosofi che
chiamano in causa la responsabilità individuale senza accontentarsi di elaborare teorie sulla carta. Medico di sé stesso in primo luogo, Berry mette a nudo i meccanismi dell’alienazione evidenziando l’assurdità e lo spreco di una vita umana che pare realizzarsi pienamente soltanto là dove termina l’orario di lavoro: una settimana fatta di due soli giorni, il lunedì e il venerdì — thanks God it’s Friday — l’idolatria del tempo libero, della fuga. Un’estraneità al proprio operare che si dilata dai luoghi della produzione operaia per invadere non solo gli uffici o il commercio, ma anche la gestione attuale del settore primario, che considera la terra come un’unità di produzione e non un organismo compiuto in sé. Ma cosa può fare chi vive in città, si chiede Berry? «Mangiare responsabilmente». Esiste un’alienazione anche nei confronti del cibo, non compensata dall’attuale ossessione verso l’atto gastronomico. Poiché mangiare è anche e soprattutto un atto agricolo, e implica scelte che spesso vengono delegate in nome della fretta e dell’impossibilità di accesso. La scelta politica di non accettare il cibo industriale, o di ridurne al massimo la sua arroganza nella vita quotidiana, dona una dimensione meno passiva al nostro esistere. Se l’accusa di essere dalla parte del privilegio è la più immediata, assieme a quella di passatismo, spesso basta guardare bene in faccia gli accusatori per sapere che non devono essere ascoltati .