Corriere della Sera - La Lettura
Come impavidi corsari sulle rotte fra prosa e versi
Fenomeni Un Premio Strega, cioè Tiziano Scarpa. Un romanziere versatile: Marcello Fois. Sono l’esempio di quanto l’attrazione della lirica possa contagiare anche chi pratica altri generi. Non solo da noi: Cortázar, per esempio...
Tante possono essere le ragioni per cui un autore scivola dalla prosa alla poesia, o viceversa. Un narratore può essere in cerca di consacrazione in quell’altro genere, minoritario ma blasonato; o può voler dimostrare la falsità di quella forma tanto nobile. All’opposto, un poeta può cercare un pubblico più vasto, la fama o, perché no, il denaro. Sì, certo, possono essere queste le ragioni. Ma possono darsene di più essenziali, decisive. Un testo richiede la sua forma e così si impone, si origina in quella specifica struttura, con gli a capo o senza. Le Operette morali non potevano essere scritte in versi come i Canti, ma quante intersezioni e connessure tra i due capolavori, quello poetico e quello prosastico (una prosa rigorosamente filosofica, morale appunto). Del resto proprio Leopardi afferma nello Zibaldone, cantiere di tutte le sue scoperte, che un poeta dovrebbe nutrirsi anche di prosa. Poi, a partire da Baudelaire, le due forme si sono fatte sempre più ibride e contaminate, tentando la fusione. Insomma, un’altra storia era cominciata.
Non si ignorano neppure oggi, poesia e prosa. Anche se la poesia gode del massimo discredito del Mercato, scrittori che sono stati o sono soprattutto narratori transitano attraverso di essa, sulle orme di maestri che hanno praticato entrambi i campi, come Pavese, Elsa Morante, Pasolini... Perché? E con quali risultati? Ogni prova sta a sé, com’è giusto: la scommessa può essere vinta o persa.
Prendiamo Tiziano Scarpa, premio Strega 2009 con Stabat Mater. Insieme a Raul Montanari e ad Aldo Nove, lo scrittore veneziano si cimentò nel 2001 nelle cosiddette cover di Nelle galassie oggi come oggi: la ricetta prevedeva canzoni pop riscritte poeticamente. Col fine principe, parrebbe, di svecchiare, parodiare, dissacrare l’immagine tradizionale della Poesia. Dopo vennero Groppi d’amore nella scuraglia (2005), sequenza di testi in cui il gioco linguistico (un dialetto fantasioso, comico ed espressionistico) si sposa con l’invenzione paradossale, il grottesco quotidiano di un paese-microcosmo. Così suonava l’inizio del primo brano: «Gesù,/ addiquà se n’è scesa la scuraglia,/ lu paese ce s’è incasato.// La trippa de famiglia/ ce magna innante a lu tilivisore./ La trippa de famiglia/ ce se quatta ne la scuraglia,/ ce runfa e ce scureggia,/ ce se groppa d’ammure. […]». La forza stava nel personaggio di Scatorchio e negli altri personaggi locutori; e in quella loro lingua, anche se con qualche rischio di maniera.
Lasciato quel gergo anarchico e totalizzante, Scarpa torna all’italiano (dopo Discorso di una guida turistica di fronte al
tramonto, 2008) con la raccolta Le nuvole e i soldi (Einaudi). E torna all’«io» lirico. Certo, per farsene gioco, per rovesciare tradizioni alte e temi consacrati. Ma l’«io» c’è, biografico e narcissico, e talvolta condiziona l’ampiezza del discorso e la stessa idea del pastiche, dell’esercizio. Perché di questo si occupa, soprattutto, Scarpa: mostrare il rovescio delle convenzioni, sperimentare, giocare con i nomi e le parole, riflettere sullo strumento che si usa, mentre lo si usa. Così accade nella serie delle Poesie scritte dalle parole. A volte l’operazione riesce (ecco le parole che parlano in Poesia scritta dalle parole
#6: «Vorremmo essere capienti abbastanza/ per contenere l’aria nuova di zecca,/ la luce appena sbucciata,/ il ballo delle creature debuttanti,/ gli uccellini, i boccioli, gli insetti,/ i nuovi arrivati»), ma altrove il ludus rischia la claustrofilia, le parole si richiudono su di sé anziché inventare mondi o abbracciare il mondo.
Poi c’è Marcello Fois, narratore sardo capace di scrivere romanzi compatti, arieggianti anche la narrativa di genere. Dopo L’ultima volta che sono rinato (2006), ecco la sua seconda prova in versi,
L’infinito non finire e altri poemetti (Einaudi). Escluso il testo che intitola la raccolta, ci sono serie in cui la scrittura poetica funziona, inventa un coro o un discorso sapienziale altrimenti indicibile: il coro è quello degli italiani morti in mare il 2 luglio 1940 (Caterina Soffici ne ha fatto un romanzo, Nessuno può fermarmi, Feltrinelli, 2017), deportati dall’Inghilterra sulla ex nave da crociera «Arandora Star», silurata dai tedeschi ( Dal silenzio). Le loro voci si intrecciano, si ricompongono, devono dirsi a quel modo. Il discorso sapienziale è quello della sezione Carne cruda e mentuccia, pane, formaggio e vino, rivolto dalla voce poetante al figlio, in una sorta di reinvenzione delle
Odi elementari di Neruda, in una specie di iniziazione e invito alla vita («Tu non lo sai e non devi saperlo,/ ma il cuore, con l’età, si restringe./ Non è più tanto capiente, immenso,/ come all’inizio dei giorni»).
Ogni tradizione, del resto, ha le sue alchimie tra i generi. Quella statunitense usa versi sformati per racconti e confessioni, tra la Beat Generation, Bukowski e Carver. Ma il culmine della complessità, del gioco di corrispondenze e incastri tra la poesia e la prosa si ha forse nei latinoamericani. Borges, certo, o Lezama Lima o Álvaro Mutis. Ma anche Julio Cortázar opera su entrambi i fronti (si vedano gli innesti prosa-poesia in un libro inclassificabile come Il giro del giorno in ottanta
mondi (Sur, 2016), con le citazioni di versi propri e altrui; e si approfondiscano le singolari poesie dell’autore da poco riedite da Fahrenheit 451, col titolo Le ragioni della collera).
In Italia c’è chi ha provato a scrivere sequenze prosastiche che vadano oltre Baudelaire e la tradizione del poemetto in prosa: sono sequenze che si vorrebbero casuali, stringhe verbali neutre, anodine. Ma ci sono anche poeti che si sono fatti prosatori-saggisti, alla Valerio Magrelli. O che hanno scritto romanzi generazionali sui generis, come Andrea Inglese e Francesco Targhetta (non apriamo qui il capitolo dei romanzi in versi). E altri che usano la prosa come una variante dell’espressione poetica.
Sconfessione e scoronamento delle forme, dunque? O loro alleanza per puntellare il letterario, sempre più minacciato? Il cileno Roberto Bolaño aprì anch’egli la sua partita doppia di poesia e prosa, confondendo le carte (se ne è parlato anche da queste pagine). Per rendersene conto, si può prendere un libro sommamente metaletterario come Tre, pubblicato in italiano da Sur (2017). Ed estrarne un organismo prosastico-poetico, questo ad esempio: «Ho sognato che Baudelaire faceva l’amore con un’ombra in una stanza dove era stato commesso un delitto. Ma a Baudelaire non importava. È sempre così, diceva». Generi come vasi comunicanti, in fondo letteratura e basta.