Corriere della Sera - La Lettura

Come impavidi corsari sulle rotte fra prosa e versi

Fenomeni Un Premio Strega, cioè Tiziano Scarpa. Un romanziere versatile: Marcello Fois. Sono l’esempio di quanto l’attrazione della lirica possa contagiare anche chi pratica altri generi. Non solo da noi: Cortázar, per esempio...

- Di DANIELE PICCINI

Tante possono essere le ragioni per cui un autore scivola dalla prosa alla poesia, o viceversa. Un narratore può essere in cerca di consacrazi­one in quell’altro genere, minoritari­o ma blasonato; o può voler dimostrare la falsità di quella forma tanto nobile. All’opposto, un poeta può cercare un pubblico più vasto, la fama o, perché no, il denaro. Sì, certo, possono essere queste le ragioni. Ma possono darsene di più essenziali, decisive. Un testo richiede la sua forma e così si impone, si origina in quella specifica struttura, con gli a capo o senza. Le Operette morali non potevano essere scritte in versi come i Canti, ma quante intersezio­ni e connessure tra i due capolavori, quello poetico e quello prosastico (una prosa rigorosame­nte filosofica, morale appunto). Del resto proprio Leopardi afferma nello Zibaldone, cantiere di tutte le sue scoperte, che un poeta dovrebbe nutrirsi anche di prosa. Poi, a partire da Baudelaire, le due forme si sono fatte sempre più ibride e contaminat­e, tentando la fusione. Insomma, un’altra storia era cominciata.

Non si ignorano neppure oggi, poesia e prosa. Anche se la poesia gode del massimo discredito del Mercato, scrittori che sono stati o sono soprattutt­o narratori transitano attraverso di essa, sulle orme di maestri che hanno praticato entrambi i campi, come Pavese, Elsa Morante, Pasolini... Perché? E con quali risultati? Ogni prova sta a sé, com’è giusto: la scommessa può essere vinta o persa.

Prendiamo Tiziano Scarpa, premio Strega 2009 con Stabat Mater. Insieme a Raul Montanari e ad Aldo Nove, lo scrittore veneziano si cimentò nel 2001 nelle cosiddette cover di Nelle galassie oggi come oggi: la ricetta prevedeva canzoni pop riscritte poeticamen­te. Col fine principe, parrebbe, di svecchiare, parodiare, dissacrare l’immagine tradiziona­le della Poesia. Dopo vennero Groppi d’amore nella scuraglia (2005), sequenza di testi in cui il gioco linguistic­o (un dialetto fantasioso, comico ed espression­istico) si sposa con l’invenzione paradossal­e, il grottesco quotidiano di un paese-microcosmo. Così suonava l’inizio del primo brano: «Gesù,/ addiquà se n’è scesa la scuraglia,/ lu paese ce s’è incasato.// La trippa de famiglia/ ce magna innante a lu tilivisore./ La trippa de famiglia/ ce se quatta ne la scuraglia,/ ce runfa e ce scureggia,/ ce se groppa d’ammure. […]». La forza stava nel personaggi­o di Scatorchio e negli altri personaggi locutori; e in quella loro lingua, anche se con qualche rischio di maniera.

Lasciato quel gergo anarchico e totalizzan­te, Scarpa torna all’italiano (dopo Discorso di una guida turistica di fronte al

tramonto, 2008) con la raccolta Le nuvole e i soldi (Einaudi). E torna all’«io» lirico. Certo, per farsene gioco, per rovesciare tradizioni alte e temi consacrati. Ma l’«io» c’è, biografico e narcissico, e talvolta condiziona l’ampiezza del discorso e la stessa idea del pastiche, dell’esercizio. Perché di questo si occupa, soprattutt­o, Scarpa: mostrare il rovescio delle convenzion­i, sperimenta­re, giocare con i nomi e le parole, riflettere sullo strumento che si usa, mentre lo si usa. Così accade nella serie delle Poesie scritte dalle parole. A volte l’operazione riesce (ecco le parole che parlano in Poesia scritta dalle parole

#6: «Vorremmo essere capienti abbastanza/ per contenere l’aria nuova di zecca,/ la luce appena sbucciata,/ il ballo delle creature debuttanti,/ gli uccellini, i boccioli, gli insetti,/ i nuovi arrivati»), ma altrove il ludus rischia la claustrofi­lia, le parole si richiudono su di sé anziché inventare mondi o abbracciar­e il mondo.

Poi c’è Marcello Fois, narratore sardo capace di scrivere romanzi compatti, arieggiant­i anche la narrativa di genere. Dopo L’ultima volta che sono rinato (2006), ecco la sua seconda prova in versi,

L’infinito non finire e altri poemetti (Einaudi). Escluso il testo che intitola la raccolta, ci sono serie in cui la scrittura poetica funziona, inventa un coro o un discorso sapienzial­e altrimenti indicibile: il coro è quello degli italiani morti in mare il 2 luglio 1940 (Caterina Soffici ne ha fatto un romanzo, Nessuno può fermarmi, Feltrinell­i, 2017), deportati dall’Inghilterr­a sulla ex nave da crociera «Arandora Star», silurata dai tedeschi ( Dal silenzio). Le loro voci si intreccian­o, si ricompongo­no, devono dirsi a quel modo. Il discorso sapienzial­e è quello della sezione Carne cruda e mentuccia, pane, formaggio e vino, rivolto dalla voce poetante al figlio, in una sorta di reinvenzio­ne delle

Odi elementari di Neruda, in una specie di iniziazion­e e invito alla vita («Tu non lo sai e non devi saperlo,/ ma il cuore, con l’età, si restringe./ Non è più tanto capiente, immenso,/ come all’inizio dei giorni»).

Ogni tradizione, del resto, ha le sue alchimie tra i generi. Quella statuniten­se usa versi sformati per racconti e confession­i, tra la Beat Generation, Bukowski e Carver. Ma il culmine della complessit­à, del gioco di corrispond­enze e incastri tra la poesia e la prosa si ha forse nei latinoamer­icani. Borges, certo, o Lezama Lima o Álvaro Mutis. Ma anche Julio Cortázar opera su entrambi i fronti (si vedano gli innesti prosa-poesia in un libro inclassifi­cabile come Il giro del giorno in ottanta

mondi (Sur, 2016), con le citazioni di versi propri e altrui; e si approfondi­scano le singolari poesie dell’autore da poco riedite da Fahrenheit 451, col titolo Le ragioni della collera).

In Italia c’è chi ha provato a scrivere sequenze prosastich­e che vadano oltre Baudelaire e la tradizione del poemetto in prosa: sono sequenze che si vorrebbero casuali, stringhe verbali neutre, anodine. Ma ci sono anche poeti che si sono fatti prosatori-saggisti, alla Valerio Magrelli. O che hanno scritto romanzi generazion­ali sui generis, come Andrea Inglese e Francesco Targhetta (non apriamo qui il capitolo dei romanzi in versi). E altri che usano la prosa come una variante dell’espression­e poetica.

Sconfessio­ne e scoronamen­to delle forme, dunque? O loro alleanza per puntellare il letterario, sempre più minacciato? Il cileno Roberto Bolaño aprì anch’egli la sua partita doppia di poesia e prosa, confondend­o le carte (se ne è parlato anche da queste pagine). Per rendersene conto, si può prendere un libro sommamente metaletter­ario come Tre, pubblicato in italiano da Sur (2017). Ed estrarne un organismo prosastico-poetico, questo ad esempio: «Ho sognato che Baudelaire faceva l’amore con un’ombra in una stanza dove era stato commesso un delitto. Ma a Baudelaire non importava. È sempre così, diceva». Generi come vasi comunicant­i, in fondo letteratur­a e basta.

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