Corriere della Sera - La Lettura
L’ombra di Montaigne dice la sua
Realtà parallele Il pensatore francese si era davvero fatto accompagnare nel nostro Paese da un assistente «tutt’altro che sprovveduto» e a lui aveva dettato i suoi scritti. Luca Romano gli dà un’identità romanzesca non arbitraria
Ascorrere introduzioni che accompagnano le edizioni degli Essais o del Journal de voyage en Italie di Michel Eyquem signore di Montaigne ci si imbatte regolarmente in espressioni richiamanti l’anonima figura d’«un segretario» o d’«un famiglio di Montaigne di cui non ci è nota l’identità» che avrebbe collaborato alla stesura, «in buona parte — poco meno della metà» del Journal, sotto dettatura dello stesso Montaigne che, per parte sua, non mancava di stenderne in prima persona anche ricorrendo all’italiano.
Un famiglio «tutt’altro che sprovveduto dal punto di vista culturale», stando a Fausta Garavini (cui dobbiamo la splendida edizione degli Essais presso Bompiani, 2012); ciò che spiega la fondatezza di Il segretario di Montaigne di Luca Romano, che a quel famiglio dà voce e nome, sia pur di fantasia, trattandosi di narrazione memoriale di chi un certo giorno, stanco delle guerre di religione che dilaniano la Francia, s ’è affacciato all’ospitale castello di Montaigne chiedendo un temporaneo asilo. E dove ad accogliere chi si presenta come «Jean-Marie Cousteau, guascone di Béarn, capitano di cavalleria leggera, senza cavallo ahimè», è un Montaigne «vestito interamente di nero e di bianco» che gli «apparve come un’ombra, seduto, senza cappello, su una sedia posta in una piccola nicchia scavata nel muro accanto a una finestra, in modo da ricevere direttamente la luce del cielo», dai «capelli corti che cominciavano a imbiancare», e con «una fine barba a pizzetto e un paio di baffi folti e bruni come buccia di castagna, che scendevano ai lati della bocca e finivano in una punta leggermente rialzata».
Un Montaigne che prende in simpatia quel guascone, proponendogli di assumerlo, avendo «bisogno di un bravo, onesto e leale segretario che prenda sotto dettatura le pagine di un libro che sto scrivendo». Che è quanto accade nei tre anni precedenti l’edizione 1580 degli Essais, alla cui stesura egli dichiara d’aver partecipato in «buona parte». E non solo: perché Jean-Marie rivendica pure il suggerimento di recarsi nella Roma dei suoi amati autori latini per vincere la melanconia da post partum creativo. Un viaggio nato in realtà «oltre che per il piacere di viaggiare, nel voler «provare le acque allora più rinomate di Plombières, di Baden (in Svizzera) e di Bagni di Lucca» (Garavini, p. XVI) per trovar rimedio al doloroso mal di pietra ereditario nella sua famiglia, di cui il segretario dà puntualmente conto, e che prende le mosse il 22 giugno 1580 in compagnia del fratello Bertrand de Mattecoulon, di trent’anni più giovane, di alcuni amici e di Jean-Marie. E che ha il suo culmine, oltre che centralità narrativa, nel soggiorno a Roma, ove giungono a fine novembre.
E qui scatta l’aspetto romanzesco, che Romano costruisce con abilità incrociando: le vicende biografiche di Montaigne, come il rapporto con l’amato defunto La Boétie o con le donne (sin troppo insistiti); il Journal per le vicende romane, riscrivendo con fedeltà e tocchi di verisimiglianza narrativa fatti celebri, quali l’esecuzione del ladro Catena o il rito della circoncisione nel ghetto; gli Essais per i dialoghi o i temi filosofici o etici affrontati, oggetto anche di proposte di censura da parte dell’Inquisizione; gli studi sulla Roma del tempo; e ovviamente i fatti che riguardano in prima persona il segretario, col suo innamoramento per la lavandaia Miriam figlia del rabbino; i dissapori con Mattecoulon; gli odî verso con altri francesi presenti a Roma. Senza però venir mai meno a quel tipo di rapporto convergente tra il «raccontare storie» e il «parlare di sé» proprio dello stile di Montaigne che Jean-Marie vorrebbe far rivivere in questo racconto dal proprio fascino mimetico (numerose le citazioni), pur nel procedere all’inizio con qualche lentezza, specie nel dialogico, per poi sveltirsi nei fatti. Un Jean-Marie che opera nell’«illusione di poter essere» come il suo signore, ma capendo «per tempo che non sarei mai stato simile a Montaigne»; giungendo nel febbraio 1581 alla rottura.
Ed è proprio «nel 15° anniversario del mio congedo», il 16 febbraio 1596, a Béarn, che Jean-Marie stende questa rievocazione-confessione. Quattro anni dopo la morte di Montaigne. E con la delusione di non aver trovato nulla «che si riferisse a me. Ma niente. Neanche una parola» nei «tre grossi volumi» dell’edizione degli Essais di pochi mesi prima: a cura d’«una giovane donna, una certa Marie de Gournay, che si fa chiamare sa fille d’alliance, la figlia adottiva», subentratagli nel ruolo.