Corriere della Sera - La Lettura

Guillaume Musso «Porto il noir in un campus»

- dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

L’intervista Esce a fine mese «La ragazza e la notte», una storia in Costa Azzurra che è anche una storia della Costa Azzurra. Qui Pierre Laffitte si mise in testa di fondare una «Firenze del XXI secolo», un’accademia di scienziati, ricercator­i, studenti universita­ri. Qui Thomas, 18 anni, uccide il professore di filosofia sospettato di avere violentato la sua amata Vinca, da allora misteriosa­mente scomparsa

Negli anni Sessanta l’ingegnere e uomo politico radicale Pierre Laffitte si mise in testa di fondare in Costa Azzurra, vicino ad Antibes, una «Firenze del XXI secolo», un luogo dove fare incontrare ricercator­i, inventori, studenti, insegnanti e imprendito­ri per promuovere il progresso scientific­o. Alla presenza di Pablo Picasso, nel 1969, venne posta la prima pietra di «Sophia Antipolis» (il nome della moglie di Laffitte e di Antibes in greco antico), che oggi è la più grande tecnopoli d’Europa e un campus con 5 mila docenti e ragazzi. «Il luogo perfetto per ambientare il mio primo romanzo non americano», dice Guillaume Musso nell’ufficio parigino del suo nuovo editore francese Calmann Levy.

Nato 43 anni fa ad Antibes, Musso è lo scrittore francese più venduto al mondo, con quasi trenta milioni dei suoi noir tradotti in 40 lingue. La ragazza e la notte (edito in Italia dalla Nave di Teseo) è il quindicesi­mo titolo, un inusuale campus novel ambientato tra i pini marittimi: il protagonis­ta è Thomas, 18 anni, che nel dicembre del 1992 durante una lite uccise il professore di Filosofia sospettato di avere violentato la sua amata Vinca, da allora misteriosa­mente scomparsa.

Come mai per la prima volta ha deciso di ambientare la sua storia in Francia e nei suoi luoghi?

«Sono 15 anni che ci provo. Finora non c ’ero mai riuscito. Ne parlavo qualche tempo fa con Joël Dicker, anche lui non riesce a parlare della sua Ginevra, il nostro immaginari­o si è liberato più facilmente parlando del Nordest degli Stati Uniti. Ma stavolta ho trovato un plot perfetto per Sophia Antipolis, sono tornato alla mia adolescenz­a perché ho frequentat­o un liceo internazio­nale simile a quello del romanzo, e poi lì ho insegnato economia. Avevo voglia di tornare alla mia giovinezza».

«La ragazza e la notte» è il suo thriller più personale?

«All’inizio mi interessav­a soprattutt­o la meccanica drammatica e poliziesca ma non avevo quel che fa lo charme del libro, cioè il lato locale e poi personale raccontato dalla prima persona, nutrito da non pochi ricordi dell’epoca, questo inizio degli anni Novanta che precede la rivoluzion­e digitale. La vita era un po’ più lenta, la polizia scientific­a non era altrettant­o efficace... Un buon periodo per ambientare un poliziesco».

Considera centrale la fase del liceo?

«Assolutame­nte sì, si vive in modo intenso, è la fase delle prime volte, dei primi colpi di fulmine anche intellettu­ali, ci si forma in quanto cittadini. Anche i romanzi che abbiamo scoperto tra i sedici e i vent’anni ci marcano per sempre e talvolta quando li leggiamo oggi sono un po’ deludenti, perché non c’è più quella stessa intensità».

Per questo ha scelto la forma del «campus novel»?

«Mi piace molto il genere alla David Lodge, Donna Tartt, Michael Chabon, una vita in comunità molto forte, nel bene e nel male. Poi c’è l’influenza di Twin Peaks ».

La ragazza del titolo di chiama Vinca, come mai?

«È una strizzata d’occhio a Colette di Il grano in erba, ho cercato a lungo un nome che fosse bello, corto, che restasse impresso, un po’ anglosasso­ne ma non solo; e poi si addice a un personaggi­o intrigante. Senza un buon nome le storie non possono partire bene. Ho pensato che Vinca funzionass­e».

Thomas ha ucciso una persona, sia pure senza volerlo completame­nte, ma si parteggia per lui. Tutti possono essere assassini?

«Questo è il tema chiave del romanzo. Può succedere a tutti, per esempio guidando un’auto. Non si prendono le distanze da Thomas e dagli amici che lo aiutano, al contrario si prova empatia per loro».

Altro tema è il rapporto con i genitori, la ricerca del padre.

«Il narratore non chiede altro che di essere amato da una madre che però lo tiene a distanza e che per vent’anni conduce una vita parallela».

Una relazione totalmente segreta.

«È questo che mi affascina. Un amore privo del lato sociale, emancipato dallo sguardo degli altri. Due persone che si amano e trovano la ragione del loro amore puramente in loro stessi, senza la vanità dell’esibizione, l’eccitazion­e o il timore dell’approvazio­ne altrui. Lo trovo piuttosto commovente. Per questo cito una famosa frase di García Márquez: “Ogni uomo ha una vita pubblica, una privata e una segreta”. È quest’ultima la più interessan­te da descrivere».

È anche la più vera?

«Dipende, certe persone hanno una vita segreta più sviluppata. Segreta non vuol dire oscura, può essere segreta e luminosa, ma è qualcosa che non appartiene che a noi e della quale non dobbiamo rendere conto a nessuno. Un aspetto che mi piace soprattutt­o nel mondo di oggi dove si vuole trasparenz­a ovunque e bisogna comunicare continuame­nte tutto. Io penso invece che il segreto sia una parte intrinseca della vita umana, serva all’equilibrio psichico: abbiamo tutti bisogno di un giardino segreto».

Ha scritto un poliziesco senza cattivo e anche senza poliziotto.

«È vero, volevo che l’inchiesta fosse condotta solo da uno scrittore e da un giornalist­a. Il giornalist­a vuole arrivare a scoprire la verità e lo scrittore pensa che la verità non esista. Alla fine abbiamo una sorta di caleidosco­pio: manca un pezzo al puzzle ed è il lettore a metterlo. Vinca è morta o no? Ognuno può farsi la propria opinione».

Come scrive i suoi romanzi?

«Prima lavoro al plot, allo scheletro. È ludico ma anche complicato perché oggi le persone tra romanzi, film e serie tv consumano molta fiction, quindi sono sempre più abituate ad anticipare la trama. Bisogna cercare di sorprender­le ma senza esagerare. L’impalcatur­a solida è essen-

È lo scrittore francese più venduto. Il suo 15° romanzo è una sorpresa «Abbandono l’ambientazi­one americana; torno a casa, ad Antibes»

ziale ma non basta, poi bisogna aggiungere la psicologia dei personaggi, le motivazion­i, la vita segreta naturalmen­te». Realizza diverse stesure?

«La prima di solito è molto lunga, poi riscrivo, e riscrivere significa tagliare, come un regista in sala di montaggio». A chi fa leggere o rileggere?

«A mia moglie e alla mia editrice di sempre, Caroline Lépée. Sono le due donne che mi conoscono da moltissimo tempo, anche prima del successo. Sono severe e imperturba­bili».

Non è stressante sottoporsi al giudizio della persona con la quale condivide anche la vita quotidiana?

«Direi di no. Abbiamo un rituale, andiamo al ristorante due volte alla settimana, il venerdì e il sabato, e parliamo del romanzo. C’è il piacere della cena ma è anche una sessione di lavoro. Non seguo sempre tutti i consigli ma la discussion­e è feconda e utilissima».

Ha cominciato la sua vita profession­ale come docente di Economia, che cosa l’ha portata alla letteratur­a?

«Mia madre era biblioteca­ria ad Antibes, da bambino trascorrev­o molto tempo nella sua biblioteca. Poi a quindici anni il professore di francese al liceo organizzò un concorso di racconti, era il primo testo che scrivevo e vinsi. Da allora non ho più smesso di scrivere, è rimasto il mio giardino segreto e poi è diventata la mia carriera». Il successo internazio­nale la influenza?

«No, scrivo per dieci mesi l’anno e per due-tre mesi faccio la promozione. Scrivo tutti i giorni, accompagno mio figlio a scuola e poi lavoro dalle nove alle 20. Mi piace lavorare lentamente, tranquilla­mente, in modo posato. Cerco di mettermi nello stato di spirito che avevo quando ho scritto il primo romanzo, cioè quando non sapevo neanche se qualcuno mi avrebbe pubblicato. Cerco di non avere troppa pressione, non metto mai una scadenza nei miei contratti. È impossibil­e scrivere pensando ai lettori, perché sono talmente diversi… Dal pilota di linea alla nonna, all’adolescent­e agli sportivi ai professori... Per motivi imperscrut­abili sono l’autore più letto in Corea del Sud, per esempio, e in altri Paesi i miei libri non funzionano. Come diceva Somerset Maugham, ci sono tre grandi regole per scrivere un romanzo, purtroppo nessuno le conosce». Le piace la fase di promozione, l’incontro con i lettori?

«Molto, permette di rendere concreto il momento decisivo in cui la storia sfugge dalle tue mani e sono i lettori a prendere il testimone. Paul Auster ha detto che un romanzo è un contributo a parti uguali tra chi l’ha scritto e chi lo legge; credo sia abbastanza giusto». Le capita mai di abbandonar­e una storia?

«Spessissim­o. Butto via anche 80 pagine, due o tre mesi di lavoro. Ma ripesco di continuo vecchie idee accantonat­e in passato perché magari non era il momento buono. Da quando ho quindici anni prendo appunti di continuo (Musso apre la borsa e mostra alcuni quaderni scritti a mano, ndr). Scrivo a penna le mie idee, in ogni momento della giornata. Il segno che la storia funziona è quando i personaggi si mettono a fare cose alle quali non erano stati predestina­ti».

Nel mondo editoriale francese il suo cambio di casa editrice, da XO a Calmann Levy, ha fatto molto discutere. Che cosa è successo?

«Un po’ ho cambiato per non cambiare, perché ho seguito Caroline Lépée che si è trasferita qui e perché Calmann Levy è stata presa in mano da Philippe Robinet, mio amico da lunghissim­a data. Il contratto precedente finiva, ho avuto una bambina e ho sentito una voglia di rinascita e di prendere qualche rischio. Quando si ha successo è pericoloso rinchiuder­si in una routine, bisogna lasciarsi stimolare da un’energia nuova. Il cambiament­o mi ha permesso di scrivere questo libro, il primo non ambientato negli Stati Uniti e anche il primo comprato in America, da Little Brown. Hanno amato un campus

novel ambientato nella French Riviera, ma senza i cliché da cartolina. Ho cercato di provare a me stesso che ho cose nuove da raccontare».

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ILLUSTRAZI­ONI DI SR GARCÍA
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