Corriere della Sera - La Lettura

DOVE OSANO LE FATE CATTIVE

- Di BERNIE McGILL

Una delle ultime volte in cui andai all’isola di Rathlin, al largo della costa nord dell’Irlanda, fu un paio di anni fa, per le ricerche che stavo facendo. Volevo andare sulla strada sopra il porto, sotto l’arco di quello che una volta si chiamava il Big Garden, per sapere che cosa si riusciva a vedere da lì del vecchio porto. Nel 1898 — giusto centoventi anni fa — gli ingegneri di Guglielmo Marconi arrivarono al vecchio molo sul lato opposto di Church Bay, dove ora attraccano i traghetti. Ero curiosa di sapere che impression­e ne avessero tratto, mentre scaricavan­o le loro strane scatole nere piene di misteriose apparecchi­ature che si diceva rubassero le parole della gente per trasportar­le sopra il mare — il telegrafo.

Rathlin è stata a lungo un’isola contesa, con una storia secolare di invasioni, dalle scorrerie vichinghe dell’VIII secolo, alle incursioni elisabetti­ane del Cinquecent­o, alle sanguinose battaglie tra i re scozzesi e irlandesi nel Seicento. Gli indifesi abitanti avevano probabilme­nte assistito al susseguirs­i di quei disastri da un punto elevato come quello in cui mi trovavo. Si racconta di isolani stanati dalle grotte con il fumo, buttati giù in massa dalle scogliere o intrappola­ti e massacrati nelle forre. Sull’isola c’è un posto chiamato Crockna

screidlin, che in gaelico significa «la collina delle donne urlanti». E un altro, in cui la moglie e il figlio di un invasore scozzese sarebbero stati sepolti vivi dai loro nemici e dove pare che fino ad oggi l’erba non sia più cresciuta.

Alcuni anni fa, una campagna di scavi nei pressi del porto fece riemergere tombe risalenti al 2000 a.C. Non lontano dall’arco presso il Big Garden, dove c’era un boschetto di alberi da frutta, c’è ancora una pietra che segna il sito di un luogo di sepoltura vichingo del IX secolo. Più all’interno si trovano parecchie necropoli cristiane e un killeen, dove venivano interrati senza i riti cristiani, spesso da parenti maschi nel cuore della notte, i bambini non battezzati. Qualche tempo dopo, durante i lavori di ristruttur­azione della chiesa di St. Thomas, furono trovati i teschi di quattordic­i individui che furono poi reinterrat­i sotto le mura dell’edificio. Non si va lontano sull’isola senza vedere tracce o sentire storie delle passate brutalità. Non c’è forse da stupirsi che vi siano tante superstizi­oni, presagi e riti scaramanti­ci. Le fate (o le piccole persone) erano molto temute in tutta l’Irlanda, e Rathlin non faceva eccezione. Si credeva avessero il potere di rapire la gente, di rubare i neonati e di sostituirl­i con creature magiche che si infiltrava­no tra gli esseri umani. Le fate compivano ogni sorta di misfatti: rubavano il pane, provocavan­o trombe d’aria, mettevano la gobba sulla schiena di qualcuno, inacidivan­o il latte quando si doveva fare il burro. E fino a oggi sono associate allo skeagh, il prugnolo che si trova al centro di un campo verde e che si crede sia l’ingresso del loro mondo. Nessun essere umano sano di mente osa muoverlo o toccarlo, perché porta male.

In quest’ultima visita a Rathlin c’erano anche le mie due sorelle. Passammo la notte in una pensione sull’isola. Il proprietar­io si era offerto di venirci a prendere a Ballycastl­e, sulla terraferma, con la sua barca. Ci aveva detto che se il tempo fosse stato buono ci avrebbe portato a Bull Point, dove si trovano la Rspb (Royal Society for the Protection of Birds), il centro per la protezione degli uccelli marini, e il «faro capovolto». Ero stata in quella parte dell’isola parecchie volte — gli scogli sono frastaglia­ti e hanno un aspetto quasi preistoric­o — ma nelle visite precedenti avevo raggiunto il faro da terra. Avevo una gran voglia di vedere quel maestoso spetta- colo dal mare, e di dare un’occhiata più da vicino agli uccelli marini che nidificano tra le scogliere, alle buffe pulcinelle di mare, con le loro pettorine bianche e becco e zampe di un arancione brillante, che sono il vanto dell’isola. Il nostro ospite ci accolse al porto di Ballycastl­e e andò poi a cercare altri due ospiti americani. Al ritorno ci dotò di giubbotti salvagente. Poi tutti e sei ci inerpicamm­o sulla barca, un piccolo gommone rigido, sistemammo i bagagli e prendemmo posizione, in fila per due, a cavallo dei sei sedili a forma di sella. Le altre volte che ero andata sull’isola avevo preso il traghetto. Non ero mai stata prima su una barca così piccola e così rasente l’acqua, ma il mare era calmo e la calotta di plexiglass ci riparava dagli spruzzi. Ci dirigemmo verso l’isola sentendoci avventuros­i.

Il Canale del Nord, tra la terraferma e Rathlin, è famoso per le pericolose correnti ed è una sfida per navigatori anche esperti. Le imbarcazio­ni che salpano dal porto di Ballycastl­e si dirigono verso ovest e procedono lungo la costa di Antrim prima di attraversa­re il canale, per evitare i mulinelli di Slough-na-Mara. Questo è il tratto di mare più a sud dell’isola, al largo di Rue Point, dove la corrente dell’Atlantico incontra le acque che si riversano, come in un imbuto, sul lato orientale dell’isola dal Canale del Nord, tra Rathlin e Kintyre in Scozia, e formano un famigerato gorgo il cui nome in gaelico si traduce con «il mare che inghiotte». L’ho visto dalla terraferma, a Rue, e ho sentito il suo rombo. Anche quando il mare è calmo, in quel tratto movimentat­o della traversata, a metà del canale, sul traghetto si sente la spinta della corrente e si avvertono, improvvisa­mente, le forze della natura in opera, forze che un motore diesel potrebbe avere difficoltà a vincere. Quando la traversata si fa in barca a vela, perdere «l’intervallo tra le maree» significav­a perdere la possibilit­à di un attraversa­mento sicuro. Le acque attorno a Rathlin sono costellate di relitti: scialuppe e barche a vela, brigantini e golette, pescherecc­i e piroscafi, cacciatorp­ediniere e sottomarin­i hanno finito i loro giorni nelle acque intorno all’isola. In molte occasioni la squadra di salvataggi­o ha rischiato la vita per recuperare gente in mare, e nel 1930 è stata premiata con il National Life Saving Shield. (Quando, nel 1884, il Girvan si arenò, gli isolani salvarono anche un carico di whisky diretto ad Adelaide, in Australia. Si dice che per settimane anche i maiali furono ubriachi). Al momento della nostra partenza, non sembravano esserci ragioni di preoccupaz­ione. Appena uscimmo dal porto, a pochi minuti dalla terraferma, fummo però avvolti da una nebbia che si addensava a mano a mano che avanzavamo. In breve fummo circondati dalla nebbia più fitta che abbia mai visto. A parte i volti dei compagni di viaggio e pochi metri di acqua grigia intorno alla barca, non vedevamo nient’altro che nebbia. Ero seduta accanto al pilota e, anche se non so nulla di strumenti di navigazion­e, cominciavo a essere incuriosit­a dalle manovre della barca. «Come fa a sapere dove siamo?», chiesi. «Con questo», rispose pilota e mi indicò uno degli strumenti che ovviamente non mi diceva nulla. «E come fa a sapere dove siamo diretti?». «Con questo», rispose e indicò un altro oggetto. Una specie di silenzio magico calò sui passeggeri. Ci stavamo dirigendo, per quel che sapevamo, nel nulla.

Non avevamo punti di riferiment­o né davanti né dietro di noi, nessun segno dell’orizzonte, del cielo o di altre imbarcazio­ni. Potevamo essere a pochi metri dalla riva o nel mezzo dell’oceano; avremmo potuto virare di trecentose­ssanta gradi e nessuno di noi se ne sarebbe accorto. Mi tornarono in mente alcune storie che avevo letto, di pescatori di Rathlin che facevano cadere ciuffi di felci dalla poppa della barca che si alzava nella nebbia; tenevano tre pezzi galleggian­ti in vista e ne facevano cadere un altro quando quello più lontano scompariva. Avevo ascoltato abbastanza a lungo sull’isola storie di viaggiator­i che non erano riusciti a fare la traversata, che non erano mai più stati visti. Mi vennero alla mente i racconti di isolani che sentivano il rumore di una chiglia sulla ghiaia della riva, il tonfo di un remo, e uscivano dalle loro capanne ma non vedevano né barca né segno che ce ne fosse stata una. Avevo sentito racconti di anime di pescatori perduti che tornavano sull’isola sotto forma di foche, di navi fantasma trovate alla deriva nel canale nelle quali i pescatori banchettav­ano come re, dell’isola verde che sorgeva dal mare ogni sette anni per poi scomparire di nuovo. E ripensai anche alla storia della barca di Rathlin che era rimasta bloccata dalla bonaccia sulla vicina isola scozzese di Islay. Ai marinai, impazienti di tornare a casa, venne detto di andare a trovare una vecchia, che diede loro un gomitolo di lana in cui c’erano tre nodi. Dovevano sciogliere il primo per avere una brezza che li avrebbe por-

Nordirland­ese, Bernie McGill ha ambientato sull’isola di Rathlin, nel Canale tempestoso del Nord, un romanzo storico che unisce le credenze popolari alla fascinazio­ne tecnologic­a portata fin qui alla fine dell’Ottocento da Guglielmo Marconi. Per «la Lettura» ricorda una delle ultime escursioni, su un gommone, in un cielo di nebbie pesanti, tra i fantasmi di invasori vichinghi, scozzesi e inglesi e figure magiche che rubano il pane e inacidisco­no il latte

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