Corriere della Sera - La Lettura

La democrazia è morta

- di LUCIANO CANFORA

Un regime fondato sulla sovranità popolare può essere concepito in termini solo formali, di rispetto delle regole, oppure si può esigere che l’uguaglianz­a diventi un fatto sostanzial­e. Entrambe le visioni però sono oggi annullate dal potere incontrast­ato delle forze di carattere tecnico o direttamen­te finanziari­o: le loro scelte sono come una gabbia d’acciaio che vincola tutti i governi in modo perentorio e ineludibil­e

Quando si discorre del problema che affaticò pensatori come Platone, storici come Erodoto, tragediogr­afi come Euripide — cosa propriamen­te sia e che destino attenda la democrazia politica — bisogna forse, preliminar­mente, stabilire cosa ci si aspetta da essa. Resta memorabile, sotto questo rispetto, la discussion­e accesa — ma rispettosa, come allora usava — tra Ferruccio Parri presidente del Consiglio e Benedetto Croce all’apertura dei lavori della Consulta nazionale il 27 settembre 1945. Parri aveva detto, aprendo il lavori della Consulta: «Da noi la democrazia è appena agli inizi, non credo che si possano definire regimi democratic­i quelli che avevamo prima del fascismo». Croce reagì («prendo la parola per ribattere nettamente»): «L’Italia dal 1860 al 1922 è stata uno dei Paesi più democratic­i del mondo e il suo svolgiment­o fu una non interrotta e spesso accelerata ascesa nella democrazia». Un contrasto emblematic­o: Giustizia e Libertà (poi Partito d’Azione) e Partito liberale erano agli antipodi su questo problema cruciale, e su quasi tutto. Per Croce era trascurabi­le il massacro attuato dal generale Fiorenzo Bava Beccaris a Milano nel 1898. E a rigore, nelle sue parole, traspare quasi una sottovalut­azione della vera novità rappresent­ata da Giovanni Giolitti rispetto alla diuturna prassi repressiva, in particolar­e in tema di diritti del lavoro, vigente nei decenni precedenti la crisi di fine secolo. Cui tenne dietro, appunto, il decennio giolittian­o, e non fu più ovvio mandare i carabinier­i a sparare sugli scioperant­i.

Tutto dipende dunque se per democrazia si intenda un minimo (le regole del gioco in verità talvolta anche truccate) o un massimo (l’articolo 3 della nostra Costituzio­ne). Talora è lo stesso studioso che, nel corso della sua vita e in ragione delle circostanz­e, dello stato d’animo e dello spirito dei tempi, oscilla tra il massimo e il minimo. Esempio molto significat­ivo Norberto Bobbio, le cui parole — nella lezione tenuta alla Statale di Milano per il trentennal­e della Liberazion­e — dilatavano enormement­e la sua consueta identifica­zione tra democrazia e regole del gioco, allorché disse: «Intendo la democrazia nel senso più ampio della parola, come quel regime che, rispetto ai valori, si ispira al principio fondamenta­le dell’uguaglianz­a non soltanto formale ma sostanzial­e di tutti gli uomini, e rispetto al metodo, consiste in alcune regole procedural­i. (…) L’egualitari­smo è l’essenza della democrazia» (il testo è nel volume Italia

1945-1975, edito da Feltrinell­i nel 1975). Croce sarebbe inorridito dinanzi a tale definizion­e, detta — non va dimenticat­o — in un momento di grandi conquiste sociali nel nostro Paese. Circa dieci anni dopo (nel libro Il futu

ro della democrazia, Einaudi) Bobbio ripiegava sul minimo, e scriveva: «Per regime democratic­o s’intende primariame­nte un insieme di regole procedural­i per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipaz­ione più ampia possibile degli interessat­i». Nel tempo intercorso tra i due interventi era cambiato quasi tutto, e — sul piano più strettamen­te politico — alla Repubblica era stato inferto il colpo mortale del sequestro Moro.

Ancora dieci anni più tardi, nel 1994, Bobbio pubblica

Destra e sinistra — non a caso mentre appariva trionfale l’ascesa del Cavaliere (ormai ex) creatore ben presto della «Casa della (o delle) libertà» — e focalizza il suo pensiero, riprendend­o credo le pagine di Tocquevill­e ( L’antico regime e la rivoluzion­e) sulla polarità 17891793, sulla polarità libertà versus uguaglianz­a. E chiariva: libertà come valore primario per la destra (beninteso non quella teppistica attuale) e uguaglianz­a come valore fondamenta­le per la sinistra. E approdava alla memorabile profezia: il fallimento del socialismo reale non significa affatto che il problema uguaglianz­a non esiste più. (Non poteva prevedere che, dopo la sua morte, il suo libro sarebbe stato ristampato con postfazion­e dell’allora ruspante Renzi, rivelatric­e di un nuovo verbo: la polarità, secondo il postfatore, era oramai un’altra, velocità versus lentezza).

Ma Bobbio, in una delle molte discussion­i sprigionat­esi dopo la fine del socialismo reale, ebbe anche una ulteriore, felice formulazio­ne: che cioè la precondizi­one affinché funzionino le regole del gioco o procedural­i è che, nella società, vi sia un numero sufficient­emente alto e attivo di «buoni democratic­i». Giacché, in una società pesantemen­te inquinata e manipolata da poteri mafiosi, quelle regole formalment­e funzionere­bbero, ma darebbero risultati aberranti e ben poco democratic­i. E si può osservare che il pirotecnic­o tapis-roulant dei risultati elettorali siciliani regionali o politici sembra aurea conferma di quella osservazio­ne così ben formulata.

Di qui discendere­bbe una ulteriore questione: se cioè quel caso estremo della Trinacria non si stia lentamente estendendo o addirittur­a si sia già esteso ad altri luoghi, anche oltre le Alpi. Ma sarebbe una domanda anacronist­ica. Mentre infatti, per gran parte della seconda metà del Novecento la disputa ruotava intorno ai punti di vista contrappos­ti che abbiamo prima ricondotto ai due grandi nomi di Parri e di Croce, nell’ultimo quarto di secolo, a grandi passi, la culla del pensiero democratic­o e degli esperiment­i democratic­i, cioè l’Europa, ha visto nascere, consolidar­si e assumere una incontrast­ata funzione direttiva forze e figure di carattere tecnico e direttamen­te finanziari­o: i cui perentori e ineludibil­i orientamen­ti sono legge. Anzi gabbia d’acciaio per tutti: per tutti i governi e per tutte le forze politiche operanti nei singoli Paesi o per meglio dire stretti nel patto. Onde efficaceme­nte ha scritto lo scorso 30 luglio sul «Corriere della Sera» Ernesto Galli della Loggia che «oggi la libertà di scelta delle politiche è limitata drasticame­nte dai vincoli della finanza globalizza­ta oltre che della tecnica; e dunque una medesima gabbia di ferro tiene prigionier­e in uno spazio limitato la politica e con essa la maggioranz­a e l’opposizion­e». Difficile dargli torto. E difficile, in una tale condizione, ritenere che sia ancora in vita la democrazia, o che la si intenda come Benedetto Croce o che la si intenda come Ferruccio Parri.

Tanti altri temi potrebbe essere qui trattati. Uno in specie: come possano definirsi democrazie Paesi — i nostri — nei quali è ormai accettato il ritorno della schiavitù in varie forme.

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