Corriere della Sera - La Lettura
L’AVVOCATO E L’INFERMIERA
Sorpreso e turbato per il colloquio con Enrico, l’uomo che ha perso il padre e accusa l’infermiere Umberto Chemeri di avergli sottratto il prezioso albo numero 1 della collezione di Tex, Alberto Dell’Abate si allontana in auto, solo con i suoi pensieri. È già a destinazione quando riceve un sms...
Se c’era una cosa che infastidiva Alberto Dell’Abate, era il mo- strarsi sorpreso di una notizia, anche la più imprevedibile. Di- sprezzava il carattere che rimane a bocca aperta di fronte a una novità. Certo, non si può sapere tutto in anticipo, ma c’è modo e modo. Sono i modi che distinguono gli uomini, e stabiliscono con sicurezza la loro posizione nella piramide sociale. Ebbene, l’atteggiamento che più di ogni altro distingue a colpo d’occhio lo spirito inetto e sottomesso è lo stupore. L’unico stupore ammissibile, a parere dell’avvocato, era quello finto, che poteva avere una sua utilità in alcune particolari situazioni di conflitto e lotta per la supremazia. Gli uomini di Stato più insigni, i grandi artisti, e gli individui superiori in generale sono capaci, da che mondo è mondo, di simulare qualunque sentimento: la meraviglia come l’indignazione, la felicità, la complicità.
Ma quello sfigato di ristoratore ridotto al lumicino, con il suo menù da trogloditi e l’orribile maglietta, lo aveva veramente colto di sorpresa. Alberto Dell’Abate, principe del foro e pater familias nel senso più pieno e genuino, nonché membro attivo della classe dirigente del Paese, e uomo che esigeva il rispetto da sé stesso prima che da chiunque altro, dominò l’istinto di spegnere, una buona volta, il motore della sua Mercedes. Sarebbe stato il segno di una resa incondizionata a quell’assurda storia del vecchio collezionista di Tex e del primo numero mancante dalla collezione. Già. La Mano Rossa. Valore di mercato: dai tremila ai cinquemila euro!!! La cifra che poteva spendere Ivana, quell’oca di sua moglie, in un solo pomeriggio di shopping in centro. È pur vero che i soldi — questo l’avvocato Dell’Abate lo aveva compreso ben prima della laurea — quanto più sono pochi, tanto più ingigantiscono agli occhi delle persone come Enrico Policicchio, con la sua tuta mimetica e quella barba incolta da veterano del Vietnam.
Finalmente, almeno, il disgraziato si era deciso a fare retromarcia liberando il vialetto, dopo essere risalito goffamente su quel catorcio da rottamare seduta stante. Era pure zoppo? Dopo la grande rivelazione sull’affare della Mano Rossa, quell’importuno che quasi lo aveva sequestrato sembrava intenzionato a togliersi di torno, una buona volta. Questa gente fa così, è guidata da decisioni momentanee e prive di conseguenze, decide di vuotare il sacco per poi tornarsene a casa senza capire che le informazioni sono molto più preziose del denaro, non vanno mai sprecate tanto per togliersi una soddisfazione.
Con l’acceleratore premuto al minimo, e senza accennare alcun gesto di saluto verso quel rifiuto umano che si era accostato al ciglio del viottolo, sfruttando un piccolo lembo di terreno pianeggiante, l’avvocato Dell’Abate proseguì per la sua strada. Tex. E il suo vecchio amico Kit Carson. La mano rossa. Il ciccione deluso. Le molteplici configurazioni della lotta per la vita: come un caleidoscopio di meschinità e frustrazioni sempre cangianti, ma solo in apparenza. Imboccato il viale che dalla zona del Podere Murato scendeva verso il centro della città, descrivendo lente e comode curve panoramiche, Dell’Abate approfittò della sosta a un semaforo per impostare il navigatore. Guidava a velocità molto moderata, come quando aveva bisogno di riflettere. Non aveva mai sentito la necessità di assumere un autista. Gli piaceva starsene chiuso nelle sue lussuose vetture godendosi l’inviolabile solitudine dei guidatori nel traffico: l’equivalente moderno dei rifugi dei vecchi eremiti, nei boschi o in cima alle rupi più scoscese. Umberto Chemeri aveva rubato il prezioso fumetto, approfittando della debolezza o dell’incoscienza del suo cliente? Di sicuro, quella del proprietario della Beccaccia non era una calunnia deliberata. Abituato ad ascoltare chiacchiere di ogni genere, e a riconoscere senza esitazioni le bugie che i clienti si ostinano a raccontare ai loro avvocati, Dell’Abate possedeva una bilancia interiore praticamente infallibile. Il Policicchio credeva sinceramente che l’infermiere fosse l’autore del furto. E quando aveva ricevuto quella minacciosa lettera partita dallo studio di un famoso avvocato, che gli ingiungeva di pagare il suo debito, alludendo a catastrofiche conseguenze in caso si fosse ostinato nell’insolvenza, ebbene, era comprensibile, la misura della sua indignazione aveva raggiunto il colmo. Si era sentito cornuto e mazziato: di qui, senza ombra di dubbio, la sua inutile sceneggiata sul vialetto. Ma non è detto che una convinzione sincera poi debba per forza equivalere a una verità, sul piano oggettivo dei fatti. È vero che non conosciamo mai il nostro prossimo e che tutte le apparenze contengono qualcosa di ingannevole, ma insomma, l’avvocato
Perché — pensava l’avvocato Dell’Abate mentre guidava — la sera della cena con i genitori di Giulio si era intromesso negli affari del padre? Perché si era infilato in una storia che si stava rivelando un’immensa seccatura? E poi c’era Irene, la mamma di Giulio: a quella donna mancava qualcosa
faceva fatica a ritenere Umberto Chemeri colpevole di quell’odioso delitto. C’era un punto debole nella testimonianza. Come aveva fatto quel vecchio costretto a letto ad accorgersi che mancava dalla sua collezione il pezzo forte? Che cosa voleva dire davvero al figlio?
Mai in vita sua Dell’Abate aveva pensato tanto a lungo a Tex Wil- ler, l’intrepido ranger. Arrivato al primo tornante della strada, la città si spalancò di fronte al cofano della Mercedes in tutta la sua gloria primaverile. I fianchi di tufo del Duomo Nuovo sembravano quelli di una pacifica bestia primordiale che vegliava sui tetti di tegole del centro. I ponti sul Vermello, che divideva in due zone di uguale estensione la città vecchia, sembravano brulicare di pedoni e di vetture. Sulle pendici dell’altura che sovrastava il lato occidentale dell’abitato, dove era diretto e che avrebbe raggiunto percorrendo un tratto di tangenziale, brillava immacolato, con il suo ritmo esoterico e asimmetrico di pieni e di vuoti, il recentissimo Centro Polifunzionale di Zendra May, la giovane e bella archistar canadese, che i buontemponi avevano subito ribattezzato «il tubetto di dentifricio». Intorno alla cupola di Santa Narcisa, con la sua caratteristica forma a cipolla, aleggiava una decina di candidi gabbiani, che da quella distanza assomigliavano a minuscoli brandelli di carta, coriandoli di un carnevale vespertino. Dell’Abate aveva fatto, e tuttora faceva parte, di un numero incalcolabile di comitati a salvaguardia dei beni artistici della città, promozione turistica e culturale. Suo padre, Olindo Dell’Abate, notaio al servizio di tutta la buona società, noto come incallito giocatore di bridge, puttaniere e melomane, aveva a lungo troneggiato nel consiglio di amministrazione del Teatro dell’Opera, intitolato a Vinicio Vitelli, la più celebre gloria artistica locale, l’amico di Puccini e di Giovanni Pascoli.
A differenza del padre, Alberto Dell’Abate era un animale a sangue freddo. Non era mai riuscito ad amare nulla. Gli piaceva possedere quadri e vini, mazze da golf, vestiti pregiati e tutto ciò che i suoi guadagni potevano offrirgli, per la semplice ragione che poteva comprarli. Ma a parte il valore, quegli oggetti di cui pure sapeva parlare con tanta competenza gli erano, nell’intimo, del tutto indifferenti. E gli esseri umani? La moglie, le figlie, i clienti, i dipendenti? Così come l’unico vero interesse di una cosa per l’avvocato era il suo prezzo, l’unico motivo dell’attrazione o della repulsione che gli suscitavano i suoi simili consisteva in quella che potremmo definire la loro «governabilità».
Le persone si potevano comprare, minacciare, blandire, sedurre, danneggiare, soccorrere... erano tutti fili che servivano a muoverle come marionette su un teatro di cui lui solo conosceva senso e scopo. A volte, però, doveva ammetterlo, questa in-