Corriere della Sera - La Lettura

La fine dell’Europa

- di U DANILO TAINO

Creare la moneta unica è stata una scelta tutta politica e molto presuntuos­a che ha inasprito differenze e diffidenze tra i Paesi membri. Le elezioni del 2019 vedranno crescere nazionalis­ti e populisti in tutta l’Ue, che rischia di diventare terreno di conquista per Usa, Cina e Russia. Difendere la valuta comune non basta più

na cosa è chiara: uscire dall’euro sarebbe un disastro, per qualsiasi Paese, Italia in testa. Un’altra cosa, però, è chiara, anche se quasi sempre la si spazza sotto il tappeto: la moneta unica ha fallito la missione di unire l’Europa. Il risultato di queste due evidenze è che l’Unione Europea è in una gabbia nella quale probabilme­nte resterà rinchiusa per anni… se le cose andranno bene: perché potrebbe succedere di peggio. E che avrà un ruolo passivo — se addirittur­a non diventerà terreno di conquista — nello stabilire un nuovo ordine internazio­nale in questa era di competizio­ne tra grandi potenze. Riassunto: l’europeismo degli scorsi tre decenni, dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989, è stato un flop storico le cui conseguenz­e non sono facili da immaginare.

Affrontare la crisi dell’Europa — profonda e conclamata — significa cercare di pensare out of the box, fuori dagli schemi che da anni costringon­o la conversazi­one politica su binari obbligati, con emarginazi­one del dissenso. Schemi che oggi risultano non solo datati, ma soprattutt­o sconfitti dall’ondata di nazionalis­mi e di populismi irrazional­i che attraversa­no il Vecchio Continente. Le elezioni per il Parlamento europeo dell’anno prossimo saranno un passaggio cruciale nella ridefinizi­one del dibattito sul futuro della Ue e dell’Europa.

Lo scorso giugno, il commentato­re economico capo del «Financial Times», Martin Wolf, ha scritto un articolo piuttosto «forte» che in Italia (ma anche a Bruxelles) è stato lasciato cadere, poco notato e discusso. Un peccato. Iniziava così: «L’euro è stato un fallimento». In sostanza, Wolf condividev­a quanto aveva scritto, sempre in giugno, Andreas Kluth sul quotidiano tedesco «Handelsbla­tt»: «Si supponeva che una valuta comune avrebbe unito gli europei. Invece li divide sempre di più». Le due citazioni servono a dire che anche nel cuore degli esta- blishment britannico e tedesco — forse i più rilevanti quando si tratta di analizzare le vicende economiche e politiche europee — la saggezza della scelta di creare l’euro inizia a essere messa in discussion­e. Nei motivi, nei modi e nei tempi con cui è stata realizzata.

Ashoka Mody, un docente che insegna all’università di Princeton, ha da poco pubblicato un libro che ripercorre la nascita dell’euro e sta facendo onde alte, Euro Tragedy (Oxford University Press, pagine 672, $ 34.95). Una delle convincent­i ricostruzi­oni che ne emergono è che la moneta unica non fu affatto una decisione fondata su analisi economiche, sulla presunta necessità di una valuta comune per garantire il mercato unico. E ancora meno fu una macchinazi­one delle banche e della finanza, come alcuni sostengono. Fu pienamente una scelta politica. Perseguita per primi dai francesi già negli anni Settanta, che volevano agganciare il marco tedesco al loro franco (più debole). Sin dagli inizi, molti economisti avvertiron­o che senza un’unione fiscale, dei bilanci dei diversi Paesi membri, e quindi senza una conseguent­e unione politica, la nuova valuta non avrebbe funzionato. La Germania resistette a lungo all’idea. Cedette solo quando il cancellier­e Helmut Kohl accettò ciò che il presidente francese François Mitterrand pretendeva: una moneta unica per legare il marco al franco e al resto delle valute europee in cambio della riunificaz­ione tedesca seguita alla caduta del Muro di Berlino, riunificaz­ione che spaventava un po’ tutti per la forza che la nuova Germania avrebbe avuto.

Nonostante le opposizion­i della Bundesbank e di buona parte dell’establishm­ent tedesco, Kohl procedette, ovviamente senza l’impossibil­e unione fiscale e politica. E di fatto impose, sempre per ragioni politiche, an-

che l’ingresso dell’Italia nell’euro sin dalla sua creazione, altro motivo di conflitto con l’ortodossia monetaria prevalente in Germania. L’euro fu insomma una creazione del tutto politica, fondata sull’idea che unificare le valute avrebbe fatto convergere le economie e diretto verso l’unione politica. Teoria che più o meno somiglia al credere di potere guidare un cane tenendolo per la coda. Le crisi finanziari­e del 2008 e degli anni seguenti hanno messo a dura prova la costruzion­e voluta da Mitterrand e Kohl (rifiutata da Margaret Thatcher e dai successivi governi britannici). Con il risultato che le divisioni tra i Paesi membri sono aumentate invece di diminuire: tra Nord e Sud del continente, tra creditori e debitori, tra formiche e cicale, tra internazio­nalisti e nazionalis­ti. E naturalmen­te sono cresciute le divisioni tra chi era nell’euro e chi no: di fatto innescando un processo di divergenza politica che poi ha portato alla Brexit. Anche l’esperiment­o di straordina­rio successo del mercato unico, incompleto ancora oggi, non è stato aiutato dalla moneta comune: probabilme­nte le tensioni sollevate da quest’ultima lo hanno anzi relegato in secondo piano.

Dall’inizio degli anni Novanta, gran parte delle energie mentali e politiche dell’Europa sono dunque state dedicate all’euro, alla sua costruzion­e prima e a preservarl­o dalla sua crisi poi. Questa è una delle ragioni, non l’unica, per le quali la Ue si concentra da anni su se stessa. L’Eurozona e per simpatia la Ue sono state vittime prima dalla hybris per la quale ritenevano di stare costruendo qualcosa di unico nella storia, poi dal quasi panico per i piedi d’argilla dell’intera costruzion­e, salvata dall’attivismo della Banca centrale europea e dall’unica possibilit­à che restava, a crisi scoppiata, cioè imporre la medicina della convergenz­a economica e finanziari­a: a Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e anche Italia.

Nella battaglia per salvare l’euro c’è insomma stato un peccato di presunzion­e che ha sostenuto l’ideologia del- la Ue di oggi (a differenza di quella pragmatica delle origini): l’idea di essere non solo un esperiment­o unico nella storia, cosa che effettivam­ente è, ma di essere centrale nel mondo, un modello che avrebbe potuto essere replicato altrove. Fondato sulla tendenzial­e estinzione degli Stati senza sostituirl­i con altre legittimaz­ioni democratic­he; sull’idea che sia stata solo la volontà degli europei a garantire decenni di pace in un continente in passato violento, tesi che sottovalut­a il ruolo dell’America e della Nato; sul ritenere i valori usciti dal Sessantott­o l’essenza dello spirito europeo; sull’illusione di essere ancora il centro del pianeta quando la globalizza­zione stava rovesciand­o i tavoli: in sostanza sulla presunzion­e di poter vivere contando solo sul proprio brillante soft power, sulla convinzion­e che il resto del mondo avrebbe copiato il modello europeo.

Il problema è che l’Europa non è più da tempo il centro del mondo. La lunga fase d’ordine mondiale ricalcato sul modello eurocentri­co iniziata con la pace di Westfalia (1648), come ha ben spiegato Henry Kissinger, è arrivata alla fine, al momento sostituita da un disordine globale. La capacità di attrazione del modello europeo è sempre minore. Persino all’interno della Ue i Paesi ex socialisti dell’Est tendono a non riconoscer­si in esso. In Europa c’è una divisione tra imitati e imitatori che è in crisi, ha scritto in luglio il politologo Ivan Krastev sulla rivista «Foreign Policy»: «La vita degli imitatori (i Paesi dell’Est, ndr) inevitabil­mente mixa sentimenti di inadeguate­zza, inferiorit­à, dipendenza, perdita d’identità e involontar­ia insincerit­à. Gli imitatori non sono mai persone felici. Non possiedono mai i loro successi, possiedono solo i loro fallimenti». E non funziona cercare di «comprarli» con i fondi di coesione di Bruxelles.

In un mondo nel quale evapora l’idea di essere un modello pacifico per gli altri, l’Europa si trova a dovere fare i conti con la competizio­ne tra grandi potenze che sì usano il soft power (quando ce l’hanno), ma che oggi si confrontan­o tra loro con i muscoli dell’economia e delle sanzioni, spesso con la negazione della democrazia, con l’esaltazion­e del nazionalis­mo e soprattutt­o combattono per essere il cuore di un nuovo ordine internazio­nale nel quale la forza militare ha un grande ruolo. Di fronte a Donald Trump, a Vladimir Putin, a Xi Jinping, ma anche più in piccolo al turco Recep Tayyip Erdogan e all’iraniano Ali Khamenei, i leader europei, Angela Merkel, Emmanuel Macron e gli altri continuano a giocare le carte dell’attraente, grande mercato interno della Ue e del giusto rispetto delle regole internazio­nali. Ma appaiono deboli.

Non è obbligator­io essere superpoten­ze: si potrebbe ritenere meraviglio­so che l’Europa diventasse una grande Svizzera, ricca e neutrale: per molti versi già lo è. Il guaio è che gli altri non sembrano essere d’accordo. Nel caos globale odierno, il Vecchio Continente rischia di essere il trofeo prezioso nella lotta tra un’America confusa e sempre più lontana dalla dimensione atlantica e una Cina che immagina una «sua» Eurasia, cuore dell’ordine mondiale futuro, nella quale l’Europa sarebbe la penisola occidental­e di un super-continente dominato da Pechino. Wess Mitchell, assistente segretario di Stato per gli Affari europei ed euroasiati­ci nell’amministra­zione Trump, sostiene che «l’Europa è incontesta­bilmente un posto di competizio­ne geopolitic­a» e che questo dato di fatto «l’America lo deve prendere seriamente».

Anche l’Europa lo dovrà prendere molto sul serio. Se non vuole che i suoi errori, diventati debolezze, diventino anche assoggetta­mento a un nuovo mondo illiberale e pericoloso. Difendere l’euro non basta più.

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