Corriere della Sera - La Lettura
Cinque ottime ragioni per leggere Eugenides
Fuggono dall’India per cercare un mondo migliore, inseguono un futuro che si rivelerà peggiore del passato I protagonisti di Sunjeev Sahota, nipote di immigrati nato in Inghilterra, sono la prova di una sconfitta. Qui ne parla l’autore
«Ti costringe a pensare solo a te stesso. Questa vita. Rende tutto una competizione. Una lotta. Per il lavoro, per i soldi. Non c’è pace. Mai. Una lotta continua per il prossimo lavoro. Lotta, lotta, lotta».
L’anno dei fuggiaschi (Chiarelettere) di Sunjeev Sahota, inglese di origini indiane (1981), è la potente cronaca, giorno dopo giorno, del tradimento di una speranza. La storia — ben costruita, già finalista al Man Booker Prize — di Randeep, Avtar e Tochi: tre migranti indiani arrivati in Inghilterra in cerca di un futuro che però sembra non esserci neppure lì. «L’immigrazione è fondamentale per il senso di me e il mio posto nel mondo. Sono nipote di migranti» dice a «la Lettura» Sahota, abile nell’affrontare nel libro un tema così attuale e personale senza sfociare nella retorica o nel paternalismo.
Decisiva e riuscita — anche a costo di un avvio più lento, ma che vale la pena superare — è la scelta di presentare i personaggi quando sono già a Sheffield, nello Yorkshire, muratori sfruttati in un’impresa edile, costretti a vivere in condizioni disumane in una casa affollata da altri migranti. Sono le prime pagine, poi l’autore apre un ampio flashback sulla vita precedente, in India, svelando i motivi che li hanno spinti ad andarsene, la fatica di trovare i soldi per farlo, fino alla scelta di uno di loro di vendere un rene.
«Nelle aree rurali del Punjab, lo stato dell’India da cui viene la mia famiglia — testimonia Sahota —, gran parte dei giovani vuole scappare in Occidente. La comunità li incoraggia ferocemente. È un’industria: agenti, avvocati, educatori, famiglie, tutti lavorano per farli partire. E fare soldi dalla loro disperazione».
Nel sistema indiano delle caste, i tre protagonisti vengono da condizioni diverse ma è solo per disperazione che anche loro lasciano il Paese. Hanno bisogno di soldi, non c’è lavoro. Hanno vissuto rovesci e avversità: Tochi da sempre perché è un chamaar, la casta più bassa, Avtar perché gli affari del padre vanno male, Randeep perché il suo è stato licenziato. Sono poco più che adolescenti, lasciano indietro amori appena nati, ma sono certi che torneranno ricchi e si sposeranno. Entriamo nei loro sogni, ma conosciamo già l’inferno in cui sono finiti. L’effetto è uno schianto. Poi la narrazione torna nel presente, e il buio è ancora più buio.
Una scena tra le più forti ritrae Avtar al lavoro nelle fogne. Forse è lui, tra i tre, il personaggio che più si perde, anche moralmente. Neppure in Inghilterra c’è lavoro. Si passa da un’occupazione all’altra, homo homini lupus. «E non ha importanza se sei più forte, ci sarà sempre un fottuto chamaar con cui dovrai dividere il lavoro o un ragazzino ricco che si è comprato una moglie», dice uno dei coinquilini dei protagonisti. Tochi, il chamaar; Randeep, ragazzino (un tempo) ricco che per avere il visto sposa «a termine» Narinder, giovane sikh cresciuta a Londra che nella storia avrà un ruolo importante.
Le discriminazioni dell’India si ripropongo a Sheffield. E con realismo Sahota descrive la trasformazione di Randeep, Avtar e Tochi, diventati capaci di crudeltà, come quando uno ruba il lavoro all’altro, o accoltella un collega. L’autore non risparmia dettagli disturbanti, che pure si alternano a una scrittura che spesso vira in delicata poesia. La lingua è intessuta (anche nella traduzione italiana di Sara Reggiani) di parole indiane che non ostacolano la comprensione, ma creano un mondo e un’atmosfera. Il risultato è un ritratto dall’interno dell’immigrazione — non solo dei drammatici viaggi dal Paese di provenienza, ma del prima e, per chi sopravvive, del dopo; per il lettore, comunque la si pensi sul tema, un’esperienza d’immedesimazione difficile da dimenticare una volta tornati alla realtà.
Nel suo primo libro, Ours Are the Streets (Picador, 2011), Sahota si era già mostrato coraggioso nel narrare la storia di un attentatore suicida. I protagonisti dei suoi romanzi, ha scritto il «Guardian», «sono tra le persone più odiate in Gran Bretagna». «In vista del primo libro — riflette l’autore — avevo pensato a quanto il mio background fosse simile a quello degli attentatori di Londra del 7 luglio 2005: figli di immigrati cresciuti nella working class a nord dell’Inghilterra. Entrambi i romanzi finiscono dunque per essere uno studio di personaggi e sistemi che mi hanno formato».
Un universo in cui non è felice neppure chi, come il dottor Cheema, di origini indiane — che ne L’anno dei fuggiaschi entra perché vuole aiutare Avtar —, vive a Londra con un buon lavoro. «Resterò un ospite in questo Paese», dice. «L’idea di appartenenza lo preoccupa», aggiunge la moglie. La condizione di Cheema è la più simile a quella di Sahota. «Oggi — confessa lo scrittore — mi sento ragionevolmente integrato, ma fino ai vent’anni ero in profondo contrasto con il Paese».
Sahota non nasconde la preoccupazione per il presente. «Nel referendum sulla Brexit ho votato per il remain e sono rimasto indignato e rattristato dal risultato, specie da come hanno votato alcune città che avevano beneficiato molto dei finanziamenti Ue. Il voto per la Brexit rende le cose difficili per tutti gli immigrati, legali o meno. C’è stato un aumento significativo dei reati d’odio e un’ostilità che persiste». Cita anche «il modo terribile in cui il governo si è occupato dei britannici della “generazione Windrush”». La minaccia di deportazione, cioè, dei cittadini arrivati negli anni Cinquanta e Sessanta dai Paesi del Commonwealth perché non hanno i documenti per dimostrare oggi di essere entrati legalmente all’epoca: vicenda che ha portato, lo scorso aprile, alle dimissioni della ministra dell’Interno, Amber Rudd.
Nel 2017 Sahota ha vinto lo European Union Prize for Literature. «Mi sento britannico — dice — ma più europeo che inglese. Non credo che l’Ue morirà. Spero che Angela Merkel sia forte abbastanza da tenere a bada i detrattori». Sui flussi dei migranti, sostiene, «tutti i Paesi dovrebbero accogliere la loro giusta quota di rifugiati e di chi è stato cacciato dalla sua terra: è un dovere morale. I migranti economici o di altro tipo, invece, dovrebbero poter andare dove vogliono».