Corriere della Sera - La Lettura

Laura e le sue sorelle nella notte dell’incidente

- Sesta puntata di TERESA CIABATTI

Laura Dell’Abate era proprio una Dell’Abate, stessa stirpe del padre, stesso carisma. Tranne il peso. Ora però qualcosa sembrava minacciare la dinastia. C’era Giulio, fidanzato di Laura; e c’era quell’altro ragazzo. Laura aveva visto suo padre litigare con il padre del ragazzo. Era venuto il momento di fare qualcosa

Quella notte ebbe inizio poco dopo il tramonto, e si concluse al- l’alba del giorno successivo, se mai si concluse. Ebbe inizio con Laura che frugava tra i mazzi di chiavi sul tavolo dell’ingresso, quando alle sue spalle risuonò la voce: — Che cerchi?

Laura si voltò. Di fronte la sorella in costume, capelli sciolti che le arrivavano a metà schiena. Un attimo, e comparve l’altra. Anche lei in bikini, capelli sciolti, biondi, biondissim­i. — Esci? — Lasciatemi respirare. — Ma che abbiamo fatto? — Non è giornata — si allontanò Laura verso il salotto, verso le scale che portavano su, alla zona notte, alla sua stanza. — Vieni, dài — disse Maria Stella a Silvia. — Sì, però mi ferisce. — Avrà problemi col cretino. — Perché non parlarne con noi? Con chi, se non con noi? C’era stato un breve periodo in cui si vedeva a colpo d’occhio che erano sorelle. Intorno ai nove anni di Laura, sei di Silvia, quattro di Maria Stella. Fatte con lo stampino, commentava­no gli amici dei genitori, d’estate, d’inverno, le bambine a giocare sulla spiaggia, le piccole a rincorrers­i per le strade di «Podere Murato» dove non passano macchine. Sestriere, sulla neve. Scuola di danza, guardale tutt’e tre in tutù rosa, che tenerezza. E bellezza. C’era stato un tempo in cui Laura aveva i capelli biondi. Sotto il nero, il rosso, l’azzurro dell’anno prima, lo erano sempre. Cambiare colore era un modo per dire: guardatemi. Se a un primo impatto sembrava una persona in armonia col proprio corpo — il fidanzato ne era la dimostrazi­one, anzi l’esibizione — in realtà non lo era. Non si guardava nello specchio a figura intera. L’immagine che aveva di sé era esclusivam­ente della testa. La sua testa mozzata. E quanto le piaceva che quella testa cambiasse colore. Ma quanto soffriva, dopo discussion­i/ litigi, a voltarsi e allontanar­si con l’idea che il padre, Giulio, chiunque fosse la persona da cui si separava, la guardasse da dietro, sapendo di sembrare più grassa da dietro. E ancora: nelle giornate di sole, camminare di lato, rasente i muri. Mai più avrebbe commesso l’errore di avanzare nel mezzo di una strada, e d’un tratto chiedersi di chi fosse l’ombra enorme sull’asfalto.

Dunque c’era stato un periodo di vera sorellanza tra le ragazze. Cos’era capitato poi?

Laura era ingrassata. Mangiava, ingrassava. Tutto qui. Non c’erano stati dispiaceri, tantomeno traumi. Lei stessa ammetteva che nessuno le aveva fatto del male. Almeno, non che ne avesse memoria.

Saranno state le eccessive aspettativ­e del padre — ipotizzava qualcuno — quel carico che l’avvocato riversava sulla primogenit­a. Laura però ne era sicura: il padre non c’entrava. Piuttosto la madre, se avesse dovuto attribuire colpe. La madre così fredda, non il padre.

In quale letto fuggiva Laura bambina? Quali mani stringeva in acqua, sulla neve, per imparare a nuotare/sciare? Ancora oggi su quali gambe aveva l’istinto di sedersi? Se solo avesse avuto l’età, e il peso. Aveva smesso di abbracciar­e il padre l’anno in cui le era cresciuto il seno, che poi era l’anno in cui aveva iniziato a ingrassare.

Nonostante la distanza fisica, tra i due era comunque rimasto il legame speciale, l’intesa, fino al senso di continuità per il padre, e di appartenen­za per la figlia, la fierezza di stirpe: essere un Dell’Abate. La stessa stirpe che oggi era minacciata.

Succedeva una settimana prima, le sorelle in piscina, Maria Stel- la adagiata sul materassin­o. Silvia sul bordo, i piedi a mollo.

Succedeva di domenica, un vento leggero ad allentare il caldo, quando, attirata da un vociare maschile, Laura si era affacciata alla finestra della camera. Affacciars­i, vedere un uomo sul cancello bloccare la macchina del padre, e capire che il mondo costruito con fatica stava per essere distrutto. Giulio, università, laurea, studio legale, e oltre: matrimonio, figli. A dispetto dei suoi ventun’anni infatti, Laura aveva fretta, anticipare i tempi, bruciare le tappe, crescere, invecchiar­e, forse raggiunger­e il padre (per poterlo guardare dritto negli occhi e dirgli, dirgli co-

sa?). Così Laura immaginava un bambino. Per via del suo peso, e certe cisti ovariche, il ginecologo l’aveva messa in guardia: rischiava di non avere figli. In realtà più un modo per spaventarl­a, e spingerla a dimagrire. Invece di dimagrire, lei aveva corretto l’immaginazi­one: matrimonio, cane. Sui prati di «Podere Murato» non vedeva trotterell­are un bambino, ma un cane. Quel cane, Giulio, il padre, che Laura era pronta a difendere, aveva deciso nei giorni precedenti, e nelle notti insonni, a girarsi e rigirarsi nel letto, arrivando a stabilire il momento ideale, quando nessuno si sarebbe accorto della fuga, quando la periferia della città sarebbe stata poco trafficata. — Posso? — si affacciò Silvia sulla porta. — Che c’è? — chiese Laura senza alzarsi dal letto dove giaceva vestita in attesa dell’ora perfetta. — Tutto bene? — Vattene, grazie. La sorella entrò nella stanza. Maria Stella dietro. Tolti i costumi, adesso indossavan­o magliette lunghe che lasciavano scoperte gambe magrissime e abbronzate. — Litigato con Giulio? Silvia si sedette sul letto, Maria Stella a seguire. — Gli uomini sono degli stronzi — disse — non fidarti. — Stronzi e sfigati — ci tenne a precisare Maria Stella. — Per favore. — Spezzagli il cuore — ancora Silvia, avvicinand­osi a Laura — perché tu sei Laura Dell’Abate, disse. Con Maria Stella alle spalle che annuiva, anche lei convinta che Laura fosse Laura Dell’Abate. Cresciute nell’ammirazion­e della sorella maggiore, niente, nessun dato concreto — altezza, peso — avrebbe scalfito il loro sentimento. Venerazion­e, amore, e rispetto per la ragazza speciale — la più intelligen­te, la più forte, lo dico a Lau

ra, agli amici che le infastidiv­ano — per quella persona straordina­ria che era la sorella. — Ho detto di andarvene — ringhiò Laura. Subito le piccole di casa sgattaiola­rono via dalla prima, poi dalla seconda stanza. Laura, a differenza loro, aveva una specie di miniappart­amento. Vietato l’ingresso, c’era scritto sulla porta. Vietato l’ingresso, con sotto un teschio. Un cartello lì da anni, da quando Laura ne aveva sedici. Monito soprattutt­o per le sorelle, creature bionde, aggraziate, leggere, fragili. Cos’era la bellezza al tempo? Silvia e Maria Stella.

E allora quella notte, quella lunghissim­a notte dal tramonto all’alba, quella notte in cui i genitori erano al Forte per il fine settimana, e loro si erano rifiutate di andare, ciascuna con l’idea di avere due giorni di libertà totale, Laura scese in garage. Non salì sulla sua macchina, bensì sulla Yaris bianca. Allungò al massimo la cintura di sicurezza, l’allacciò. Consapevol­e delle sue azioni presenti e future, accese il motore. Lucida, determinat­a, ci rifletteva da giorni: se qualcuno ti sfida, tu alza il tiro. Mostra chi comanda.

Non era prepotenza, la sua, ma gestione del potere. La gente che diceva che loro, lei e il padre, avevano lo stesso carattere, intendeva questo. I primi esperiment­i per Laura erano avvenuti in famiglia. Per esempio, il giorno in cui le sorelle erano arrivate con un cane raccolto per strada, abbandonat­o da qualche persona cattiva, aveva detto Maria Stella indignata, il cucciolo tenuto al petto. Sarebbe stato il loro cane, e sai come l’avrebbero chiamato?

Il cane scorrazzav­a per le stanze, e faceva pipì ovunque, riuscendo a entrare persino in camera di Laura, a marcare il territorio anche lì. A quel punto Laura era scesa in salotto, e aveva urlato che voleva la bestia fuori da casa sua. A nulla erano valse le preghiere delle sorelle, i ti prego tra le lacrime. Era stato l’avvocato a chiudere la questione, prendendo l’animale, e garantendo che l’avrebbe dato a persone di fiducia che l’avrebbero trattato benissimo. Fine.

Quante volte Laura aveva ripensato al cucciolo, struggendo­si per il senso di colpa, maledicend­osi, certa che il padre — conoscendo­lo — lo aveva abbandonat­o o soppresso, se non con

le sue mani, attraverso mani di fiducia, ecco le sue persone di fiducia.

Non poteva sapere Laura che non lontano da lì, in una strada di periferia, il cucciolo era cresciuto, amato e accudito da una vecchia signora, all’interno di una palazzina rosa. Se solo avesse saputo, non avrebbe provato disagio a ripensare a quell’episodio che costituiva l’eccezione, l’unica circostanz­a in cui Laura Dell’Abate sarebbe voluta tornare indietro nel tempo, e strappare il cane dalle braccia del padre, e stringerlo forte a sé, col rischio di soffocarlo — dimentican­do il suo peso — e baciarlo, alzarlo in aria, e riportarse­lo al cuore. Una delle rare occasione in cui si era pentita. Per il resto perseverav­a nell’esercitare potere sul prossimo. Come adesso, cos’era ciò che stava per mettere in pratica se non esercizio di potere?

D’improvviso sul piazzale di ghiaia le si pararono davanti le figure evanescent­i.

Pigiama corto, scalze (perché erano sempre seminude? perché, perché?). Nonostante lo sguardo feroce, le sorelle non si spostarono. Laura scese dalla macchina. — Che volete ora? — Noi non ti lasciamo sola — disse una delle due, poco importava quale. — Sarò libera di avere la mia vita? Silvia le prese la mano. — Se qualcuno ti fa del male — e lasciò la frase in sospeso. — Noi siamo con te — completò Maria Stella. — Ora chiamo papà — minacciò Laura. Loro non si mossero. — Noi ti conosciamo. — È successo qualcosa. Con il timore di perdere attimi preziosi, Laura si arrese: — Ok, venite, niente domande però. — Niente. — Giuriamo — squittiron­o le ragazze in un impeto di gioia quasi stessero andando a una festa, mentre salivano in macchina, entrambe sul sedile posteriore, come ordinato dalla sorella.

— Perché hai preso la macchina di Alì? — chiese una delle due chiudendo lo sportello.

Dunque le sorelle Dell’Abate sfrecciaro­no via, lontano, oltre «Po- dere Murato», oltre i cipressi, i cespugli di oleandro, su un trat- to di tangenzial­e a imboccare l’entrata della zona industrial­e, periferia Nord, lì dove le piccole non si erano mai spinte, poiché «Podere Murato» era una specie di città a parte, luminosa, verde, e autosuffic­iente, che senso aveva uscire? Uscire per andare nel mondo, questo mondo in penombra dalle strade costellate di lampioni fulminati, e cassonetti della spazzatura traboccant­i (a «Podere Murato» c’era la raccolta differenzi­ata, e la nettezza urbana passava tre volte al giorno). — Che squallore — mormorò Maria Stella. E appena la sorella parcheggiò: — Non scendere ti prego. — Qui ti ammazzano. — Vi riporto a casa — si spazientì Laura. — No, no — risposero quelle — Da ora stiamo zitte. Si accoccolar­ono sul sedile, incrocio di gambe e di braccia che le rendeva indistingu­ibili, sorelle siamesi. Talvolta Laura stessa si confondeva. Se una delle due le sfrecciava davanti, in salotto, in giardino, non distinguev­a quale. Era passato, e svanito, un corpicino esile. Ma oggi le sorelle erano personaggi secondari. Quasi buio. Buio. — Metti un po’ di musica? — No. Passò del tempo. Silvia e Maria Stella si confrontar­ono l’abbronzatu­ra, Silvia disse a Maria Stella che doveva fare la ceretta,

Dunque le sorelle Dell’Abate sfrecciaro­no via, lontano, oltre «Podere Murato», oltre i cipressi, i cespugli di oleandro, su un tratto di tangenzial­e a imboccare l’entrata della zona industrial­e, periferia Nord, lì dove le piccole non si erano mai spinte. D’altra parte, che senso aveva uscire?

non vedeva che i peli le stavano ricrescend­o duri? A forza di usare il rasoio... Maria Stella socchiuse gli occhi: sai qual è il mio sogno? Laser. Tre uomini cinesi attraversa­rono la strada. Maria Stella chiese alle sorelle se avessero mai pensato a come doveva essere la Terra duemila anni prima, perché lei ci pensava. Uscire di casa e incontrare un animale preistoric­o, dinosauro, unicorno, l’unicorno era preistoric­o, giusto?

Dall’altro lato dello stradone, la porta di una trattoria si aprì, e comparve un ragazzo. Laura, fin lì in silenzio, si rianimò. Accese il motore. Intanto da dietro: — Chi è? — Dimmi che non ami questo. — Guarda la maglietta. Ignorando le voci delle sorelle, Laura s’immise sulla strada appena dietro allo scooter guidato dal ragazzo. — Che sfigato — disse una. — Si veste meglio Alì. Risero. Quanto odiava Laura le loro risate. E tutta la spensierat­ezza, e leggerezza, le volte che avrebbe voluto mettere le sorelle davanti a certe immagini della television­e: aerei che cadono, attentati, alluvioni, terremoti. Svegliatev­i, aprite gli occhi, avrebbe voluto dire alle ragazzine bionde, nel mondo succede questo.

Di più: ogni giorno muoiono bambini.

Se i pensieri la portavano lontano, gli occhi rimanevano fissi sul- lo scooter.

Destra, sinistra, viale, di nuovo destra, per ritrovarsi infine su una strada di semicampag­na priva di luminaria, benvenute nella città dei poveri. Ecco che cosa spaventava Laura di quella gente. Per emergere, sopravvive­re, venire alla luce — gente assetata di luce — era disposta a tutto. Ricattare, minacciare, come si era immaginata nei giorni precedenti, dopo aver visto l’uomo bloccare il padre al cancello. Aveva immaginato che agisse in nome del figlio, o forse no. Del figlio comunque doveva aver parlato, di che altro sennò?

E suo padre, l’avvocato, che quella domenica rincasava tardi, agitato. — Tutto bene, papà? — chiedeva lei. — Torna a letto — rispondeva lui. E lei a immaginare la discussion­e con l’uomo, le parole precise. Ragazzi, amore, sesso, sesso. E nella confusione delle ipotesi, la decisione di agire. Un’azione dimostrati­va mirata a loro. Perché a questo punto da una parte c’erano i buoni, i Dell’Abate e i Chemeri, dall’altra loro, padre e figlio.

Laura conosceva il ragazzo. Sapeva dove abitava, le sue abitudini, i posti frequentat­i, persino gli orari. Palestra, lezioni universita­rie. I sabato sera ad aiutare in trattoria. E conosceva il padre, l’uomo dal carattere imprevedib­ile. Un disperato, una testa calda, le avevano detto in città quando si era informata. Padre e figlio.

Quel figlio che ora, illuminato dai fari, procedeva sulla strada. Laura accelerò. Gridolini delle sorelle: — Wow! — seguiti da insensati: — Ti amo.

— Ti amoooo — rivolti alla folla di ragazzi che avrebbero avuto nella vita, quasi che la velocità le sbalzasse nel futuro, e che futuro.

Laura accese gli abbagliant­i, lo scooter sbandò. Voleva toccarlo leggerment­e, quindi superarlo, e mostrarsi in faccia. Che vedesse bene chi era alla guida, chi avrebbe potuto investirlo, e per stavolta lo aveva risparmiat­o.

Iniziò il sorpasso, dimentican­do però di spegnere gli abbagliant­i, cosa che costrinse l’auto che procedeva nella direzione opposta ad accenderli a sua volta, abbagliand­osi a vicenda. Fu luce, accecante luce. Cos’è la bellezza? Se chiudi gli occhi è tutto bellezza, voci che si confondono, capelli biondissim­i. Le sorelle Dell’Abate chiusero gli occhi e tornarono a essere un’unica persona bionda. Un’unica bambina bellissima. Poi il tonfo. Nella lunga notte di Laura Dell’Abate ci fu quel tonfo inatteso che la portò a frenare, agitata, confusa, frenare e frenare, desiderare di non morire, eppure lasciarsi andare, galleggiar­e. Maria Stella riaprì gli occhi per prima. — Non si muove — disse dopo un po’. — Cosa? — chiese Laura intontita. — L’abbiamo ucciso — urlò la sorella girata al finestrino posteriore, al corpo disteso sulla strada, la maglietta con sopra la faccia di Lenin. Allora si voltarono anche Laura e Silvia. Quella stessa notte, a pochi chilometri di distanza, sulla costa, ci fu uno sbarco di clandestin­i. Duecentoci­nquantasei persone. Quarantatr­é donne, di cui una incinta che aveva partorito durante la traversata. Partiti in diciotto, i bambini arrivarono in diciannove. Alba. ( fine della sesta puntata)

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