Corriere della Sera - La Lettura
Cinque ottime ragioni per leggere Jeffrey Eugenides
Sono entusiasta quando uno scrittore che ammiro resuscita un personaggio dal quale a suo tempo avevo stentato a separarmi: è una tecnica straordinariamente audace di cui fu maestro Balzac, che perciò non esitò a definirsi un genio, e che ho ritrovato in una raccolta di racconti che mi è capitato di leggere nei giorni scorsi. Questo è già un buon motivo per ammirare un romanziere. Ma in realtà ci sono almeno...
Il «ritorno dei personaggi» è una tecnica narrativa straordinariamente audace che, stando a Laura Surville, sorella di Balzac, il fratello ideò un certo giorno del 1833. Prestando fede alla famigerata testimonianza della Surville pare che Balzac, al colmo dell’entusiasmo, le abbia annunciato di essere in procinto di diventare un genio.
Capita a molti scrittori prima o poi, dopo una sfiancante notte di lavoro, di lasciarsi andare all’euforizzante ipotesi della propria genialità. Peccato che il più delle volte sbaglino. Be’, si dà il caso che in quella circostanza Balzac avesse ragione in un modo che probabilmente persino lui, nella sua proverbiale fiducia in sé stesso, avrebbe stentato a credere.
Fornire a un personaggio il lasciapassare per saltare da un romanzo all’altro — ricoprendo ogni volta, a seconda delle circostanze, ruoli differenti — è qualcosa di più di un semplice colpo di genio. È una rivoluzione copernicana. Il dono supremo che un romanziere possa fare alle sue creature. La sottoscrizione di un contratto che recita pressapoco così: «Caro personaggio, ti prometto che finché sarò in vita lo sarai anche tu, e che forse proprio in virtù di questo potrai sopravvivermi. Ciò ti consentirà, inoltre, di invecchiare serenamente, e qualora ne senta la necessità morale, di redimerti, o altrimenti di perseverare negli errori. In cambio non dovrai smettere di sorprendermi». Così Balzac è riuscito a dila- tare il tempo romanzesco, rendendo ancor più vischiosa e audace la promiscuità tra i dati reali e i dati fittizi della sua mostruosa commedia umana. Non sorprende che, dai e dai, ci sia quasi impazzito dentro.
Sono entusiasta quando uno scrittore che ammiro resuscita un personaggio da cui a suo tempo avevo stentato a separarmi. Mi è capitato quest’estate leggendo Una cosa sull’amore, il nuovo libro di Jeffrey Eugenides. E precisamente quando, all’inizio del racconto intitolato Posta aerea, mi sono imbattuto in Mitchell Grammaticus. Avevo lasciato il buon vecchio Mitch alle prese con uno dei gesti più altruisti compiuti da un eroe romanzesco nell’ultimo scorcio di millennio. Alla fine de La trama del matrimonio, dopo aver inseguito la donna amata per più di cinquecento pagine, di fronte alla possibilità di mettersi con lei Mitch si tira indietro. E lo fa perché è giusto farlo. Non per disincanto o per un calcolo cinico, ma perché per una volta romanticismo, buonsenso e oblazione amorosa possono trovare un compromesso.
Non faccio in tempo a esultare per la ricomparsa nella mia vita di Mitchell che mi accorgo che questo racconto risale al 1996, uscito per la «Yale Review», ossia un quindicennio prima de La trama del matrimonio (2011). Non si tratta quindi di un sequel, bensì di un pre- quel. E visto che ci siamo mi accorgo che Una cosa sull’amore raccoglie diversi racconti scritti e pubblicati su rivista da Eugenides nel corso dei suoi trenta e passa anni di carriera. E che sono uno più bello dell’altro.
Ciò detto, occorre dire che Jeffrey Eugenides è lo scrittore meno balzacchiano della narrativa americana contemporanea. Per intenderci, si è guardato bene dal raccogliere l’eredità dei Grandi e Indefessi Prolifici (Roth e Updike su tutti). Anzi, è solito mettere parecchi anni tra un libro e l’altro. Ecco perché, sebbene ormai vada per i sessanta, il suo corpus di opere appare singolarmente succinto, composto da tre romanzi e questa preziosa selezione di racconti. Così, su due piedi, è difficile individuare un tratto che li accomuni. Le vergini suicide e Middlesex, sebbene diversi per ambizioni e mole, hanno un’ispirazione magica. La trama del matrimonio, invece, ha un impianto decisamente realista. Ciò che assimila un materiale così eterodosso è la sensazione, immediatamente percepibile per un lettore di lungo corso, di trovarsi di fronte a manufatti superbamente rifiniti, in cui non c’è spazio per il caso, l’improvvisazione, le scorciatoie corrive. Le frasi sono tornite al punto da non mostrare alcuna asperità. Dovendo fare un paio di nomi: Nabokov e Salinger. Lo stile del primo ha chiaramente influenzato la stesura de Le vergini suicide e di Middlesex (basti vedere l’uso ironico e discorsivo delle parentesi). Del resto, Eugenides — scrivendo La
trama del matrimonio — deve aver pensato ai ragazzi geniali e disfunzionali di Salinger (alludo ai Glass naturalmente). Ciò spiega perché il collegiale triangolo amoroso tra Madaline, Leonard e Mitchell riveli una precisione che, date le circostanze, vorrei definire geometrica.
Eugenides dà il meglio di sé quando dona a ciascun personaggio la voce che merita. Un talento mimetico che sfiora l’orecchio assoluto. In Great Experiment, uno dei racconti più belli, così si esprime il contabile senza scrupoli quando deve convincere il recalcitrante poetaeditor a frodare il capo, un riccone ottantaduenne che ha fatto i soldi con il porno per poi riciclarsi come serio editore liberal: «Tanto per cominciare, come li ha fatti i soldi? Con le fiche. Era questo il suo punto di vista. Jimmy è stato un pioniere del primo piano della fica. Ha capito che tette e culi non tiravano più. Non li ha nemmeno presi in considerazione. E adesso è una specie di santo? Una specie di attivista politico? Non crederai a quelle cazzate, vero?». Qualcosa mi dice che con questo racconto Eugenides abbia voluto rivolgere un neanche troppo velato omaggio a uno dei capolavori di Saul Bellow: Il dono di Humboldt. Non a caso il racconto si svolge a Chicago e il protagonista è un poeta che, dopo un esordio promettente e anni passati a rinverdire frustrati sogni di gloria, si sveglia un mattino afflitto dall’idea del proprio fallimento, almeno secondo i parametri del so- gno americano, e per questo rinuncia ai suoi rigidi principi umanistici per darsi al crimine.
Insomma, sono parecchie le ragioni per ammirare Eugenides:
1) Perché, sebbene pubblichi poco, quando lo leggi hai la sensazione che passi le giornate a scrivere.
2) Perché il giudizio sul suo Paese, l’America, così come le sue idee politiche, non hanno un posto così preponderante in ciò che scrive: più che altro fanno da sfondo alla sua narrativa, senza mai emergere in primo piano.
3) Perché insegna letteratura a Princeton ma considera la sua attività accademica un lavoro come un altro che non ha alcun peso sulla sua vocazione artistica. Tempo fa in un’intervista a Serena Danna per «la Lettura» diceva: «Scrivere è ben separato dal mio mondo e dalla mia vita. Dove mi trovo e chi sono non impatta molto su di esso. Insegnare all’università non mi cambia, almeno coscientemente. E nemmeno avere studenti intorno. È come se andassi a fare un lavoro diverso quando insegno. La mia vita è consumata dallo scrivere, dal pensare allo scrivere e insegnare è qualcosa di molto distante in fondo al mio cervello. Sono cose distinte. Se facessi l’idraulico nel tempo libero sarebbe la stessa cosa».
4) Perché sembra avere un talento speciale (appannaggio esclusivo dei romanzieri eccellenti) nello sfornare personaggi femminili del tutto plausibili. Come le due vecchie signore del primo racconto della raccolta:
Le brontolone. Per entrare nella testa di Della, una ultraottantenne affetta da demenza senile e tuttavia animata da un’indomita vitalità, occorrono un tatto e una circospezione di cui oggigiorno pochi narratori dispongono.
5) Perché nutre un rispetto sacrosanto per l’autonomia della letteratura. Tornando a Mitchell Grammaticus, si può dire che condivida diversi tratti con il suo creatore: è un intellettuale interessato alle religioni, di famiglia piccolo-borghese di Detroit e di origine greca, con una spiccata inclinazione per i viaggi avventurosi e gli studi accademici. Ciò non di meno Eugenides inorridirebbe di fronte a questa arbitraria sovrapposizione, così come anni fa, dopo l’uscita de La trama del matri
monio, negò recisamente che il Leonard Bakhead del romanzo, un geniale matematico affetto da disturbo maniaco-depressivo, fosse ispirato a David Foster Wallace. E bisogna capirlo: il processo creativo è una cosa troppo seria e complicata per ridurla a una rozza trascrizione di fatti realmente accaduti. La letteratura è letteratura, perché cercarle a ogni costo un debito nei confronti della biografia di chi vi si consacra? Di norma, quando si scrive di un romanziere, non è saggio né proficuo ragionare per tassonomie; gli si fa un torto inserendolo in una qualsivoglia categoria specifica. Chiedo scusa allora se mi serve di notare come Eugenides appartenga al club di eminenti romanzieri nati all’inizio degli anni Sessanta che hanno fornito un contributo determinante alla narrativa americana a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio. I suoi compagni di strada si chiamano Foster Wallace, Franzen, Chabon, Lethem, Egan... È una generazione di scrittori che Harold Bloom, il più malmostoso critico americano, ha sempre guardato con sospetto. Più che veri artisti, ecco la sua sottile analisi, sembrano un branco di sociologi ultra-radicali! Ahimè, c’è del vero in ciò che Bloom sostiene alla sua maniera. L’interesse di questi narratori per cosa significa essere americani spesso pare prendere il sopravvento sulla ricerca di intimità cui la narrativa, anche la più audace, dovrebbe aspirare. La solfa è sempre la stessa: ok, sono americano, ma Dio se me ne vergogno! È ciò che ti trovi a pensare leggendo il magnifico resoconto della settimana passata da Foster Wallace su una nave da crociera extralusso diretta ai Caraibi. O seguendo le peripezie dei fratelli Lambert nel funambolico tour de force de Le correzioni.
Mi pare che Eugenides anche in questo sia diverso dai colleghi. La sua passione per la narrativa appare talmente esclusiva e genuina, così scevra da ogni pregiudizio ideologico o da intenti pedagogici, che leggendolo hai l’impressione che sia in costante comunicazione con gli scrittori che ama. Tanto per fare un esempio: in
Trova il cattivo, un racconto uscito per il «New Yorker» in cui viene messo in scena il conflitto coniugale tra un texano ubriacone e una valchiria tedesca, ritrovo la svagata disperazione etilica del miglior Cheever.
Comunque, se dovessi dire cosa tiene insieme tutti questi racconti, così diversi, direi il tema ossessivo dell’inadeguatezza. E, a ben pensarci, è il sentimento comune che emerge da tutti i libri di Eugenides. Le sorelle Lisbon, le ineffabili eroine de Le vergini suicide, si sentono talmente escluse dal nostro mondo che decidono di abbandonarlo prematuramente. È inadeguato (o inadeguata?) Cal Stephanides, il narratore (o narratrice?) di
Middlesex, in perenne conflitto con la propria anfibia identità sessuale e culturale; per non dire dei tre ventenni de La trama del matrimonio, in cerca ciascuno a suo modo d’un equilibrio che consenta loro di affrontare lo schifo della vita adulta. Gli eroi di Una cosa sull’amore (perché non provare a tradurre l’assai più evocativo titolo originale Fresh Complaint?) sembrano avere un conto aperto con il successo: economico anzitutto, ma anche professionale, familiare, erotico. In tal senso Eugenides si iscrive nella migliore tradizione americana che considera il successo il motore di tutto senza che ciò costituisca una fonte di vergogna. E anche in questo mostra di aver tenuto conto della lezione di Balzac.