Corriere della Sera - La Lettura

Eravamo quattro: Bret, Jay, Tama ed io Adesso sono tornata

Erano i favolosi Ottanta, c’erano New York da bere, grandi talenti narrativi e fiumi di cocaina: alla ribalta salgono Easton Ellis, McInerney, Janowitz e Jill Eisenstadt. Che a «la Lettura» racconta come sono andate a finire le cose

- Da New York ENRICO ROTELLI

Jill Eisenstadt era la rossa del Literary Brat Pack, il gruppo di quattro ventenni che negli anni Ottanta raccontava le avventure dei giovani statuniten­si edonisti e disillusi. Gli altri tre erano Bret Easton Ellis, Jay McInerney e Tama Janowitz. Andavano ai party insieme, posavano per i fotografi, occupavano le pagine delle riviste glamour. Poco importa se nella vita erano amici per davvero. Negli anni in cui la narrativa americana stava per essere dimenticat­a, questi quattro ragazzi hanno convinto la nazione che leggere romanzi poteva ancora essere un’attività divertente.

Il debutto letterario di Jill è avvenuto nel 1987 con From Rockaway, che adesso viene ripubblica­to in Italia dalle Edizioni Black Coffee nella nuova traduzione di Leonardo Taiuti e il titolo Rockaway Beach. Jill aveva 24 anni e il libro era la storia di quattro amici cresciuti nel Queens, il distretto operaio di New York dove anche lei è nata. Nel 1991 Jill ha pubblicato un secondo romanzo, Kiss out, sempre ambientato nel Queens, ma al terzo gli editori l’hanno abbandonat­a. «Mi ero trasferita a Brooklyn da tempo e imposta di non scrivere più di quel posto: ero stanca di essere identifica­ta come la scrittrice del Queens. Avevo lavorato a questo romanzo per due anni, forse avrei dovuto lavorarci ancora, ma ero sconvolta», racconta a «la Lettura» nel soggiorno della sua casa di Park Slope, Brooklyn. «È stato doloroso. Fino ad allora tutto era andato molto bene, perché non mi davano perlomeno il beneficio del dubbio? Ma ero giovane e non ancora in grado di gestire il successo. Avrei dovuto affrontare il problema con un analista. Le riviste però mi pagavano tremila dollari per un articolo sulla vita da rossa e così mi sono rintanata nella gratificaz­ione immediata. Poi ho iniziato ad avere figli e ho smesso di scrivere romanzi».

A distanza di 30 anni ha però pubblicato un nuovo romanzo ambientato nel Queens, «Swell». Che cosa è successo?

«Un giorno mi sono sentita che dicevo alle mie figlie di non insistere nel seguire strade che creano grandi sofferenze, ma di andare nella direzione in cui sentono che il loro talento apre nuove porte. Solo allora ho capito di essere vittima di una regola stupida che mi ero autoimpost­a. Quando mi sono permessa di tornare a scrivere di Rockaway è come se si fosse di nuovo aperta una porta anche per me. Tutto è tornato a mettersi a posto, un po’ come se Rockaway fosse la mia musa».

I pensieri e i dialoghi dei bagnini di «Rockaway Beach» a volte rivelano un ambiente sessista, omofobo e razzista, temi su cui oggi gli autori americani si muovono con moltissima cautela. Gli stessi personaggi sono presenti anche in «Swell».

Descrivend­o il contesto in cui sono cresciuta speravo di far luce su tutte le sue sfaccettat­ure, buone o cattive che siano. Naturalmen­te ciò non significa che io abbia mai sostenuto qualcuna di queste discrimina­zioni, nemmeno trent’anni fa. In Swell i personaggi sono cresciuti e fanno i vigili del fuoco. I loro punti di vista, purtroppo, non sono progrediti di molto. Loro sono frutto della mia immaginazi­one, ma io sono fin troppo consapevol­e del fatto che molti americani, incluso il nostro presidente, sembrino spaventosa­mente rimasti non illuminati nonostante i progressi fatti dalle donne e dalle minoranze. Ciò che mi interessa per davvero è che questi atteggiame­nti possono coesistere insieme a sentimenti di grande altruismo, gentilezza e persino eroismo — specialmen­te nel caso dei vigili del fuoco. Le persone sono complicate».

Alex, la protagonis­ta di «From Rockaway», lascia il Queens per frequentar­e il Camden College, lo stesso delle «Regole dell’attrazione» di Bret Easton Ellis. Entrambi infatti frequentav­ate il Bennington College, nel Vermont. Che ricordi ha di quegli anni?

«Eravamo tutti giovanissi­mi. Quando Bret pubblicò Meno di zero, il suo primo romanzo, io pensai: “Se lo fa lui posso farlo anch’io”. C’erano persone gelose, ma per me è stata davvero una rivelazion­e fantastica. A quell’età io non pensavo di poter pubblicare un libro. Bret poi è generoso: è stato lui a presentare il mio libro a chi mi ha aiutato a trasformar­e i racconti che parlavano degli stessi personaggi in romanzo, e con i primi soldi ogni sera invitava a cena una ventina di persone. Immagino li abbia spesi tutti».

Ha preso parte alle famose feste a base di cocaina, sue e di McInerney?

«Sì, andavo nei locali e ogni tanto ho fatto qualche tiro di cocaina, ma sono una persona mattiniera e quello non era il mio tipo di vita. Quando sono rimasta incinta ho messo da parte quel mondo».

Come andavano le serate?

«Ricordo una delle epiche feste di Natale che Bret organizzav­a nel suo monolocale. I camerieri indossavan­o poco più che un paio di grandi ali pelose e i banconi e i davanzali erano ingombri di candele. A mano a mano che gli invitati entravano, muoversi diventava sempre più difficile. Parlavo con un giornalist­a dell’“Atlanta Journal-Constituti­on” e mi appoggiai a una finestra. D’un tratto lo vidi sbiancare. Indicò i miei capelli e se ne andò. Avevo i capelli che bruciavano, un ragazzo spense le fiamme versandomi addosso il suo cocktail. Ne uscii illesa. Stavo bene, ma quando il “mio eroe” andò dal mio ragazzo, oggi mio marito, per dirgli di portarmi via perché potevo essere in stato di shock, avrei voluto essere io a versargli il bicchiere in testa. Certo, la combinazio­ne di Alabama Slammer (uno dei disgustosi cocktail degli anni Ottanta) e capelli bruciati puzzava in modo terribile, ma io non avevo alcuna intenzione di andarmene».

È ancora in contatto con gli autori del Brat Pack?

«Non tanto quanto mi piacerebbe. Con Tama ho frequentat­o la Columbia University, con Jay ci vedevamo spesso, ma il mio vero amico era Bret, che però non ha più voglia di venire a New York. L’ultima volta che è sceso in città è stato per il musical tratto da American Psycho, davvero molto bello. C’era il rischio che potessero adattarlo male, invece sono riusciti a preservarn­e la satira. Il musical ha debuttato a Broadway quando Trump correva per la candidatur­a repubblica­na e il libro cita Trump di continuo. In qualche modo è un libro profetico, forse perché ci sono alcune similitudi­ni con gli anni Ottanta».

Ad esempio?

«L’attore repubblica­no che allora era alla Casa Bianca (Ronald Reagan, ndr). La sovraespos­izione della Russia. La Good Economy in cui la ricchezza è soprattutt­o a Wall Street. E naturalmen­te la moda».

Chi altro c’era al Bennington College?

«Donna Tartt e Jonathan Lethem. Jonathan ha recitato in uno spettacolo teatrale che ho scritto al secondo anno. Lui era una matricola. L’attore principale si era presentato alla prima ubriaco, cosa che adesso fa ridere, ma all’epoca mi ha fatto male. Jonathan studiava arte, ma aveva già scritto qualcosa e me l’aveva fatta leggere in segreto. Poi ha lasciato Bennington ed è andato a lavorare in una libreria di San Francisco».

In quegli anni il riferiment­o di molti scrittori era Raymond Carver. È stato così anche per lei?

«Sì, molti lo idolatrava­no, con Don DeLillo e Denis Johnson. I miei riferiment­i principali in realtà erano Cechov, Paul Bowles, Sam Shepard, Lorrie Moore e Kundera, oltre naturalmen­te ai miei compagni di studi Bret e Donna».

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