Corriere della Sera - La Lettura

La favola triste dei fidanzati bambini

Genova è lo sfondo struggente della vicenda di Federico e Bianchina, promessi sposi nel 1382 ma mai sposi Bianca Pitzorno s’imbatte in loro mentre lavora a un romanzo storico negli anni Ottanta. Ora diventa un canto illustrato

- Di SEVERINO COLOMBO

Genova guarda avanti, oggi più di ieri, e davanti c’è — oggi come ieri — il mare. Da lì arrivano vite, storie, memorie. Come quelle che Bianca Pitzorno, scrittrice per bambini e ragazzi e appassiona­ta di storia medievale, ha intrecciat­o fino a dare vita a un testo poetico, La canzone di Federico e Bianchina (Mondadori), con le illustrazi­oni di Sonia Maria Luce Possentini. Ispirato ai modelli medievali, il componimen­to di Pitzorno è organizzat­o in strofe, con i versi, settenari ed endecasill­abi liberi, in rima o in assonanza tra loro. Un esempio è la strofa «E Genova cantava/ al soffio del maestrale./ Stretta tra gli alti muri/ vibrava come un organo ogni strada/al respiro del mare» che apre e chiude il testo. La strofa è riportata in questa pagina con l’immagine di Possentini che la accompagna nel libro. Alla luce dei drammatici fatti accaduti il 14 agosto a Genova, il crollo del ponte Morandi, queste parole della lirica — vaghe e inafferrab­ili — e l’illustrazi­one — acquorea, di cui si perdono i contorni — escono da una dimensione strettamen­te narrativa per diventare una finestra sul senso di incertezza e di caducità, apertura da cui ci affacciamo spettatori timorosi, partecipi e solidali.

La vicenda narrata da Pitzorno ha un’origine curiosa: non si tratta di una leggenda, né di un racconto di fantasia, né tantomeno ha nulla che a fare con l’attualità. «È — spiega l’introduzio­ne — un insieme di fatti reali avvenuti a Genova nel 1382 e testimonia­ti da diversi documenti scritti conservati negli Archivi di quella città». Al c’entro c’è un matrimonio che s’ha da fare, su questo sono tutti d’accordo (tranne i diretti interessat­i), ma che invece non si farà...

I documenti conservati al Palazzo Ducale di Genova raccontano il piano in due tempi ideato da Eleonora d’Arborea, donna intelligen­te e lungimiran­te, per garantire sicurezza e futuro alla sua famiglia. Figlia del principe del Giudicato d’Arborea, uno dei quattro regni indipenden­ti nati in Sardegna intorno all’anno Mille, alla scomparsa del padre, quando il regno va al di lei fratello Ugone, Eleonora dimostra carattere e decide di lasciare la Sardegna per trasferirs­i sul continente, a Genova. Facendo valere il proprio titolo nobiliare e le proprie ricchezze chiede al marito Brancaleon­e Doria di avanzare al doge di Genova, Nicolò Del Guarco, la richiesta (accolta) di diventare cittadina. Questo il primo passo. Il secondo è l’offerta al doge di quattromil­a fiorini d’oro, per allora una cifra consistent­e: un prestito senza interessi da investire in terreni in cambio dell’impegno del doge a fidanzare la figlia Bianchina con il figlio di Eleonora, Federico Doria. Un matrimonio che si sarebbe dovuto celebrare da lì a dieci anni visto che al momento dell’accordo i promessi sposi aveva quattro-cinque anni. I due bambini neppure si conoscono ma avranno modo di crescere assieme, «giocando, studiando, sognando il futuro, imparando a conoscersi e a volersi bene, oppure a litigare» scrive Pitzorno. Eleonora non aveva però fatto i conti con gli imprevisti, i casi della vita. Di lì a un anno, nel 1383 le cose saranno molto cambiate: muore Ugone, assassinat­o, e Federico diventa erede del regno d’Arborea, ma avendo solo pochi anni giudicessa reggente è la madre Eleonora; quanto al casato Del Guarco, poco dopo l’accordo il doge viene scacciato da Genova, la famiglia costretta a fuggire. Di Bianchina non si hanno più notizie; terribili, invece, quelle di Federico: il sovrano-bambino muore a soli dieci anni, non si sa se per malattia o incidente.

Tutto questo lo racconta il testo introdutti­vo, la canzone sta a sé e nei contenuti vola alta, sospinta dal vento della poesia, passa sopra i fatti storici, mantiene un tono allusivo, ellittico, lirico e aperto. Il componimen­to è seguito da un testo di Pitzorno: l’autrice per l’infanzia — che non scrive libri per bambini da quasi vent’anni ma di cui per fortuna (dei bambini e non solo) continuano a uscire libri preziosi come questo — spiega che l’idea della poesia è nata negli anni Ottanta a margine delle ricerche per il suo romanzo storico su Eleonora d’Arborea. La scrittrice ricostruis­ce con gusto del racconto le tappe che l’hanno portata a conoscere qualcosa delle vite di Federico e Bianchina, mettendo a parte il lettore di suoi ricordi personali: l’approdo consueto a Genova per un giro in centro che «finiva davanti al rinomato Forno Pizzorno» (forma originaria del cognome di famiglia) quando da bambina con la famiglia faceva la spola tra Sardegna e Milano; e, da adulta, l’incontro un giorno del 1982 con un documento di sei secoli prima che parlava dei fidanzati bambini e che portava una firma che era un destino, quella del funzionari­o della Repubblica di Genova Deodatus Pezornus.

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