Corriere della Sera - La Lettura
Postumo ma pieno di vita No, Rastello non se ne va
I materiali di un incompiuto romanzo ospedaliero che smaschera le nostre ipocrisie, testi su Sofocle e su Sterne: sono il lascito di un autore versatile scomparso nel 2015
Dal futuro in cui ci aspetta l’opera di Luca Rastello giunge oggi un’opera postuma, Dopodomani non ci sarà. Sull’esperienza delle cose ultime, curato per Chiarelettere dalla moglie Monica Bardi. Un libro composito, che porta il titolo di un romanzo di ambientazione ospedaliera che Rastello progettava di scrivere e di cui nel volume sono raccolti abbozzi, materiali preliminari, ritratti di personaggi, meditazioni concomitanti, incorniciato da due scritti di natura diversa, un frammento Sul Morire, e una lettera/testamento indirizzata alle figlie.
Ma anche un libro unitario, da mettere sullo stesso scaffale di opere compiute, coerenti e perentorie come poche altre, quali La guerra in casa, Piove all’insù o I buoni, perché nella sua dispersione contingente si percepisce a ogni riga — sia che Rastello narri, rifletta o si rivolga ai suoi cari — il tentativo di affrontare la potenza che tutto disorganizza, separa e disarticola, la morte; una potenza che è però nello stesso tempo l’unica contro- spinta allo sclerotizzarsi della Vita in Forma, autoconferma, perbenismo ontologico. Come autore e come uomo, Rastello ha sempre amato cacciarsi nei guai, suoi e altrui. Fin da ragazzo, quando partecipava appassionatamente ai movimenti, o da adulto quando organizzava una rete di solidarietà per i rifugiati della ex Jugoslavia, o viaggiava come inviato in luoghi rischiosi, sempre occupandosi di temi su cui non si ha diritto di parola se non si è messa la propria pelle a rischio della paura, della sofferenza, dello sconcerto, del dubbio. Sempre sul posto non per andare a vedere, ma per partecipare. Il contrario di quello che di solito tutti facciamo. Fino a quando, come con la Lucia di Manzoni, non è stato a lui cercare i guai, ma sono stati i guai a venire a cercare lui: esempio perfetto di quella che dovrebbe essere non semplicemente una vita, ma una «buona vita», come dicevano gli antichi Greci.
La morte interrompe il tempo del singolo, certo; ma anche lo moltiplica, lo rende tangibile, prezioso, pluridimensionale. Dire che occorre farsela alleata è conforto ipocrita, e dal libro si coglie quanto dessero noia a Rastello le rassicurazioni pelose (anche in buona fede) che si rivolgono al morente per sentirsi migliori: si drogano, e la droga la pagano i malati, scrive. Ci sono pagine divertentissime dedicate per esempio alla pazienza con cui il Malato Riottoso, come Rastello si definiva, deve sorbirsi i consigli di chi gli suggerisce rimedi ayurvedici, chiropratici, fitoterapici o magari tenta di insinuargli il sospetto, in nome di chissà quale filosofia medica fricchettona, che lui se vuole può guarire (e dunque se resta malato è colpa sua): fino alla scena mirabile in cui Luca fa un’intemerata a un clown volontario che è venuto a gonfiare palloncini in un reparto di malati adulti, e nel pieno fervore della requisitoria il suo compagno di stanza chiede un palloncino perché, sosterrà poi davanti all’accusa di tradimento, il clown gli faceva pena. Frivolezze, ostentazioni? Tutt’altro. Rastello si rende conto che il morire non è solo un problema di chi muore. Ai sani la morte fa scandalo, la loro compassione è anche scongiuro, l’affetto che circonda il malato rischia di isolarlo in quanto oggetto di imbarazzo, specie se la malattia si protrae a lungo, se ci sono recidive. La compassione è un sentimento quanto mai ambivalente, avvicina ma nello stesso tempo allontana, crea un cordone sanitario, istituisce una gerarchia in cui è chiaro una volta per tutte chi sta sopra e chi sta sotto.
No, la morte non è un’alleata. Ma è possibile usarla come reagente, come acido corrosivo per liberare la vita da ciò che la mortifica: la paura, il conformismo, il vittimismo, i ricatti, la mancanza di curiosità, la buona coscienza un tanto al chilo, tutti ceppi che ingabbiano e immiseriscono la potenza insita in ogni esistere.
Due scritti raccolti nel libro esemplificano con la massima radicalità i due vettori. Uno dedicato all’Antigone di Sofocle, ovvero la tragedia, l’irreversibile, il conflitto insanabile: ogni morto, dice Rastello, è Polinice, il figlio di Edipo che ha tentato di conquistare con le armi la sua città; anche il suo stesso cadavere è un problema, uno scandalo, di nuovo, proprio nel senso evangelico di oggetto di inciampo. L’altro al Tristram Shandy di Sterne, ovvero l’arte dell’indugio, della proroga, della proliferazione dei tempi e dei punti di vista, potenzialmente infiniti, fino a creare un labirinto in cui potrebbe essere la morte la prima a stancarsi, come con Sherazade nelle Mille e una
notte. Non c’è tempo, in entrambi i casi, né per il lutto né per la consolazione, due temi che non compaiono mai nel libro. C’è di meglio da fare, per esempio occuparsi della felicità, passata, presente e futura, propria e degli altri. Rastello ha utilizzato il tempo della sua lunga malattia come un formidabile moltiplicatore di vita. La morte che doveva raggiungerlo il 6 luglio 2015, più che togliergli la parola gliel’ha data. Tornerò a trovarvi, fidatevi, scrive alle figlie. Dopodomani non ci sa
rà, e gli altri suoi bellissimi libri, sono la prova che sapeva quello che diceva.
Prospettiva Non c’è tempo né per il lutto né per la consolazione, due temi che non compaiono mai nel libro curato dalla moglie