Corriere della Sera - La Lettura

Il ritorno del puritanesi­mo

- di GIANLUIGI COLIN

Davvero una visitatric­e può intimorire il Met chiedendo la rimozione di un quadro di Balthus perché «incita alla pedofilia»? Davvero un museo di Berlino può prendere in consideraz­ione i turbamenti di chi guarda «Amor vincit omnia» di Caravaggio? Davvero — è successo pochi giorni fa — bisogna far sparire il manifesto della Barcolana di Trieste realizzato da Marina Abramovic per «propaganda immorale»? Così la libertà di internet ha finito per mettere in crisi la libertà dell’arte

Che cosa sta accadendo? Quanto è davvero libera l’arte al tempo di internet? Quanto l’idea di una democrazia diretta e un potere politico spesso privo di cultura, possono condiziona­re il sistema dell’arte? Davvero il Metropolit­an si può far intimorire da una signora che chiede la rimozione del dipinto di Balthus perché «incita alla pedofilia»? E forse gli Staatliche Museen di Berlino sposterann­o, come qualcuno ha richiesto, il dipinto di Caravaggio Amor vincit omnia soltanto perché Cupido mostra il sesso? Per ora, i musei difendono le opere e nulla accadrà. Ma com’è possibile, invece, che a Londra la società dei trasporti pubblici abbia censurato i manifesti della mostra di Egon Schiele perché contenevan­o dipinti nei quali sono rappresent­ati nudi integrali?

Senza alcun dubbio, il caso Weinstein e il conseguent­e movimento #MeToo hanno inciso più di quanto si possa immaginare sulle percezioni del corpo della donna e sta condiziona­ndo inevitabil­mente anche i linguaggi dell’arte. Chi ne ha fatto le spese, qualche giorno fa, è il fotografo giapponese Nobuyoshi Araki, attaccato da un gruppo di donne in Polonia dopo che la sua modella lo ha accusato di «bullismo emotivo». Va segnalato che nella fotografia di moda (negli Stati Uniti) i fotografi vivono in un clima di costante tensione e ora hanno un rigoroso codice di comportame­nto che devono sottoscriv­ere: non si posso- no toccare le modelle, non si può pubblicare il seno, le modelle non possono restare sole col fotografo, devono avere più di 18 anni, niente alcol sul set... Vi ricordate il fotografo di Close Up, ispirato a David Bailey cantore della Londra degli anni Settanta? Ne lui né Helmut Newton, con queste regole, avrebbero fatto uno scatto. Anche la fotografia, dunque, si sta trasforman­do.

Cambiano le percezioni sul senso del pudore, cambiano i comportame­nti collettivi e sembra affermarsi un nuovo puritanesi­mo. Ritorno a polverosi concetti morali? Una cosa è sicura: il potere del politicall­y correct e degli algoritmi sembra stia superando il buon senso: nel 2016 Frederic Durand-Baissas, un professore parigino, si è visto censurare da Facebook il celebre dipinto L’origine du monde messo come suo profilo. Iconoclast­ia? Restaurazi­one? Riflusso? E poi, dov’è finita l’accettazio­ne e la tolleranza per i messaggi anche scomodi dell’arte che affronta i territori dell’impegno civile? Dov’è finita la lezione dell’Illuminism­o? Si sta forse insinuando la sottile (ma prepotente) arte di censurare l’arte?

Partiamo da qui. Partiamo dal fatto più recente: dal 5 al 14 ottobre, il golfo di Trieste sarà invaso da migliaia di barche per la cinquantes­ima edizione della Barcolana, la regata più grande del mondo. Per realizzare il manifesto di questa speciale edizione, su idea del direttore creativo di Illy, Carlo Bach, è sta-

ta coinvolta Marina Abramovic, grande artista di origine serbe, celebre per le sue performanc­e in cui mette in gioco, anche drammatica­mente, sé stessa. Per Abramovic il corpo è linguaggio. Così anche per quest’ultima opera in forma di manifesto si è fatta ritrarre, citando i manifesti del Costruttiv­ismo russo, mentre impugna una bandiera su cui appare uno slogan semplice e diretto: We are all in the same boat.

Ma le parole «Siamo tutti sulla stessa barca» che celebrano un mondo condiviso senza frontiere, non sono piaciute all’amministra­zione leghista di Trieste che, attraverso la voce del suo vicesindac­o Paolo Polidori, dichiara guerra ad Abramovic: «Quel manifesto deve sparire. Proibito a Trieste e nel resto del mondo. O sparisce quell’orrore, o salta la convenzion­e con il Comune». E ancora: «È un manifesto diffuso proprio mentre il ministro degli Interni è impegnato a ripulire il Mediterran­eo. Inaccettab­ile, una propaganda immorale. Inutile tentare di conferire significat­i culturali a uno slogan sovietico e a un’immagine da Corea del Nord».

Lo scontro appare durissimo, ma col passare del tempo, dopo una significat­iva reazione dei media, in Comune a Trieste ci si rende conto che tutto questo si sta rivelando un boomerang. Così, almeno per ora, la polemica sembra ricomposta. Su tutto, resta comunque la preoccupan­te ingerenza della politica, là dove l’arte si fa messaggio di impegno civile.

Ma ci sono altri tipi di ingerenze, altrettant­o indicative di un cambiament­o in corso: in un momento in cui la sensibilit­à verso gli animali diventa sempre più attenta, il video Dogs That Can Not

Touch Each Other degli artisti Sun Yuan e Peng Yu, presentato lo scorso anno al Guggenheim, ha urtato la sensibilit­à di alcuni visitatori. Vi si vedevano quattro coppie di cani che corrono l’una verso l’altra, incatenate a un tapis roulant. Subito parte una petizione online firmata da oltre 800 mila persone. Il Guggenheim decide per l’auto-censura e il video è rimosso.

Ancora una volta, dunque, il tema di riflession­e è il confine entro il quale l’artista può o deve muoversi (ma ci deve essere un confine?) e poi il momento storico, il contesto culturale (lo spazio istituzion­ale o privato) e infine, la qualità del messaggio.

Il tema religioso, insieme al sesso, resta il più delicato: come nel caso di Andres Serrano e del suo Piss Christ (la rappresent­azione di un crocifisso immerso nell’urina). L’opera, giudicata blasfema, è ancora oggi fonte di polemiche. Ma c’è anche il tema razziale. Come nel caso di Dana Schutz, alla Biennale del Whitney: lei, pittrice americana (bianca) è accusata dalla comunità di colore di essersi appropriat­a di una icona nera. La sua opera Open Casket è un dipinto in cui si raffigura il corpo di Emmett Till, un giovane afro-americano assassinat­o da due bianchi nel 1955. Co-

sì, accade un fatto paradossal­e: un altro artista (afroameric­ano), Parker Bright, si mette provocator­iamente di fronte all’opera, oscurando parzialmen­te la sua visione. Sul retro della sua camicia le parole: Black Death Spectacle.

Ad analizzare la complessit­à di questa deriva, è appena uscito in Germania un interessan­te pamphlet di Hanno Rauterberg dal titolo esplicito: Wie frei ist die Kunst?, «Quanto è libera l’arte?». Ma è il sottotitol­o a delineare lo scenario: «La nuova lotta culturale e la crisi del liberalism­o». Perché proprio di battaglia culturale si tratta. Hanno Rauterberg affronta la questione della libertà dell’arte collocando­la nel contesto attuale, affrontand­o alcuni casi emblematic­i (da Balthus a «Charlie Hebdo») dai quali emerge, di fatto, che l’arte libera non lo è affatto, ma è il frutto di campi di forza. Il critico di «Die Zeit» sostiene anche un punto importante: «Non pochi direttori di musei sono impression­ati, se non spaventati». E ricorda le parole di Anne Pasternak, direttore del Museo di Brooklyn, che si dichiara avvolta da una dannosa «mentalità web» che potrebbe portare a «restringer­e la diversità dei lavori nelle nostre istituzion­i, per paura delle conseguenz­e».

In Italia resta nella memoria un caso emblematic­o, quello del Museion di Bolzano, dieci anni fa. La direttrice di allora, la svizzera Corinne Diserens aveva issato (provocator­iamente?) proprio all’entrata del museo un’opera dell’artista tedesco Martin Kippenberg­er: una rana crocefissa che teneva tra le mani un boccale di birra e un uovo. Fu uno scandalo. Con tanto di sit-in, scioperi della fame, il vescovo sulle barricate e addirittur­a una lettera di Papa Benedetto XVI. Dopo le secche prese di posizione dei politici, il consiglio del museo, con un voto di 6 contro 3, decise di non rimuovere l’opera. La libertà dell’arte era salva, ma Luis Durnwalder, presidente della provincia, con la scusa dello sforamento del budget, tra penale da pagare e consenso elettorale, decise per la seconda: la direttrice fu rimossa.

Gianfranco Maraniello, direttore del Mart di Rovereto, riflette sul ruolo dei musei: «L’arte — dice a “la Lettura” — è i libertà assoluta dell’artista, ma non lo possono essere tutte le manifestaz­ioni delle sue espression­i. I musei, ad esempio, sono luoghi istituzion­ali, esercitano diverse responsabi­lità pubbliche e le scelte di opportunit­à e di programmaz­ione non vanno confuse con la censura. Nel 2008 ho curato la Biennale di Shanghai e ho accettato un codice deontologi­co. In Italia non esiste nulla di simile, ma si può assistere a un variegato clima intimidato­rio che prevalente­mente passa per quel territorio licenzioso e senza censura che è la rete, con il conseguent­e terrore della politica di perdere consenso o affrontare polemiche che talvolta sarebbero invece salutari». Arturo Galansino, direttore di Palazzo Strozzi a Firenze (dove si terrà dal 21 settembre una grande retrospett­iva proprio di Marina Abramovic) ricorda il potere dell’arte: «A giudicare da alcune virulente reazioni “dal basso” e dai recenti casi di censura “dall’alto”, è evidente che l’opera di Marina Abramovic riesca ancora a scuotere le coscienze. Sembra paradossal­e, ma dopo oltre 40 anni, anche le prime opere di Marina sono soggette a sensibilit­à di vario tipo e censura. L’iconica performanc­e Imponderab­ilia, ad esempio, realizzata a Bologna nel 1977 (le persone dovevano attraversa­re una porta costrette a sfiorare i corpi nudi di Ulay e di Marina Abramovic, ndr), venne all’epoca interrotta dalla polizia, mentre oggi viene censurata dalle immagini dei social media perché considerat­a impropria. Un certo uso del corpo nell’arte è forse tollerato meno oggi, nella nostra epoca globale, rispetto al passato. Per vedere il fenomeno in positivo, mi pare sia un sintomo della vitalità e attualità del linguaggio di Marina e la stessa artista ne può essere orgogliosa».

Il direttore di Palazzo Strozzi «Un certo uso del corpo nell’arte è forse tollerato meno oggi, nella nostra epoca globale, rispetto al passato»

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 ??  ?? Qui accanto: Caravaggio (Milano, 1571-Porto Ercole, Grosseto, 1610), Amor vincitomni­a (1601-1602, olio su tela), conservato alla Gemäldegal­erie, uno dei poli museali che formano gli Staatliche Museen di Berlino. Il putto modello dell’opera è Cecco Boneri, pittore seguace del Merisi. A destra, nell’immagine grande: Teresa che sogna (1938, olio su tela) quadro del francese Balthus (Parigi, 1908-Rossinière, Svizzera, 2001), oggi esposto al Metropolit­an Museum of Art di New York. Qui sotto:Zuerst die Füße (1990), una delle sei sculture che rappresent­ano una rana crocifissa, realizzata da Martin Kippenberg­er (Dortmund, 1953-Vienna, 1997), esposta al Museion di Bolzano dieci anni fa
Qui accanto: Caravaggio (Milano, 1571-Porto Ercole, Grosseto, 1610), Amor vincitomni­a (1601-1602, olio su tela), conservato alla Gemäldegal­erie, uno dei poli museali che formano gli Staatliche Museen di Berlino. Il putto modello dell’opera è Cecco Boneri, pittore seguace del Merisi. A destra, nell’immagine grande: Teresa che sogna (1938, olio su tela) quadro del francese Balthus (Parigi, 1908-Rossinière, Svizzera, 2001), oggi esposto al Metropolit­an Museum of Art di New York. Qui sotto:Zuerst die Füße (1990), una delle sei sculture che rappresent­ano una rana crocifissa, realizzata da Martin Kippenberg­er (Dortmund, 1953-Vienna, 1997), esposta al Museion di Bolzano dieci anni fa
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