Corriere della Sera - La Lettura
IL PRIVILEGIO DELL’ARTE: INDIFFERENTE ALLA MORALE
Proviamo a immaginare una mostra dedicata ai profanatori dell’arte moderna e contemporanea. Una mostra ideale, in cui verranno presentate anche opere difficili (o impossibili) da ottenere in prestito. Il percorso espositivo potrebbe snodarsi seguendo tre principali linee.
La sezione iniziale sarebbe dedicata ai «blasfemi». Vi si potrebbero radunare gli squartamenti pagani di Nitsch, la rana in croce di Kippenberger, il dozzinale crocefisso di plastica in un recipiente pieno di urina di Serrano, la fotografia di Abdessemed che si ritrae come un Cristo in croce sotto la scritta «Je suis innocent». Ispirandosi al gesto scandaloso di Caravaggio — santificare le prostitute — questi artisti si comportano come iconoclasti. Tendono ad acquisire alcuni simboli religiosi, per immetterli in un sistema di desacralizzazioni, ricorrendo a proposte visive irridenti. Eretici della postmodernità, prendono posizione contro i dogmatismi. Non rispettano credi: li disgregano.
La seconda sezione della mostra accoglierebbe i «pornografi». I riti voyeuristici di Balthus, la fotografie sado-masochistiche di Mapplethorpe, le perversioni bondage di Araki, le riprese sfocate di film hard di Ruff, gli atti sessuali idealizzati di Koons. In questi lavori, nessun sottinteso: un’esibizione della corporeità, che viene mostrata nella sua assolutezza, superficialità, nuda verità. Al centro di questo capitolo potrebbe esserci il capolavoro della pornografia pittorica della modernità: L’origine del mondo (1866). Un’opera priva di erotismo, in cui Courbet si sofferma non sull’insieme di una determinata scena, ma su un dettaglio anatomico. Un ventre di donna. Le gambe socchiuse. In primo piano, il sesso: nitido, senza velature. Una rappresentazione iperrealista, che rimodula una fonte fotografica.
Infine, la terza sezione. Ospiterebbe i «perturbanti». Le investigazioni plastiche di Bourgeois, che affrontano tematiche come l’amore, la perdita, la memoria, il dolore; le sculture repellenti di McCarthy, che trasformano le abiezioni in incubi e i tabù in satire; le opere di Schinwald, che investigano su desideri e corporeità. Sulle orme di surrealisti come Dalí, queste personalità danno voce al perturbante, appunto, inteso freudianamente come dimensione dello spavento, del terrore, dell’angoscia: «Qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è affiorato».
Nel corso della passeggiata, il visitatore di questa immaginaria mostra scoprirà che l’arte, a differenza del cinema e della televisione, detiene un privilegio straordinario: può permettersi di non rispettare un trascendente senso del pudore. Può usare, riadattare e riattivare tematiche, figure e motivi sacri o proibiti, trasgredendo il politically correct. Inoltre, incurante di ogni censura, può essere indifferente a ogni astratto principio morale. Non è mai immorale né oscena ma è semplicemente a-morale. O meglio, deve attenersi solo a quella «morale delle linee» di cui aveva parlato agli inizi del Novecento un critico visionario trapiantato a Parigi: Mécislas Golberg. Perché ha un unico e supremo fine: imporre specifiche regole a sé stessa; seguire criteri che essa medesima inventa, definisce e riarticola continuamente.