Corriere della Sera - La Lettura
«Niente scenografie: a Vicenza solo musica »
Il direttore e compositore Iván Fischer ha scelto il Teatro Olimpico per l’Opera Festival in ottobre. «Lo sfondo non cambierà. Per mostrare un gioiello e aiutare il pubblico a concentrarsi sulle note»
«Splendido. Un sogno». La prima volta che l’ha visto, Iván Fischer si è sentito sopraffatto dalla bellezza del Teatro Olimpico di Vicenza, il primo e più antico teatro stabile coperto dell’epoca moderna. «Credo che sia uno degli edifici più strabilianti al mondo, un posto da visitare almeno una volta nella vita». Dalle armoniose prospettive dell’anfiteatro progettato da Andrea Palladio è nata un’idea che a ottobre diventa realtà: un festival internazionale di lirica nel gioiello architettonico della cittadina veneta. «È come se il teatro fosse stato pensato per questo obiettivo, tornare alle tradizioni classiche».
Fischer, ungherese, fondatore e direttore della Budapest Festival Orchestra considerata oggi tra le migliori al mondo, talento richiestissimo ovunque, compositore oltre che direttore d’orchestra, sbarca a Vicenza con i suoi musicisti per mettere in scena il Falstaff di Giuseppe Verdi (praticamente a sue spese) e un grande concerto: ha scelto di aprire così la prima edizione del Vicenza Opera Festival (1214 ottobre), su cui si sente già un certo brusio d’interesse nella comunità internazionale della lirica, quella tribù che si sposta da New York a Londra, a Bayreuth al seguito delle produzioni più interessanti. Fischer, infatti, è molto noto e amato: in ciò che fa mette non solo cuore e passione, ma anche la convinzione che il musicista abbia un obbligo morale: «La musica è uno strumento di comunione. In un momento in cui in tutto il mondo viviamo la paura nei confronti di chi è diverso, l’intolleranza, la voglia di chiudere piuttosto che aprire la porta, le note possono fare emergere fiducia, tolleranza, coraggio di condividere».
Perché proprio Vicenza?
«Mi interessava l’idea di un ritorno alle origini. L’opera come forma artistica nasce a Firenze, con la Camerata de’ Bardi, un circolo di intellettuali che voleva ricreare il teatro del- l’antica Grecia e di Roma. L’Olimpico di Vicenza fu costruito nella stessa epoca, alla fine del XVI secolo: è un anfiteatro al coperto, alquanto inusuale. Il soffitto è affrescato come se fosse il cielo. Nella lirica ci sono molte produzioni innovative, perché si cerca sempre di oltrepassare nuovi confini. Il mio obiettivo, invece, è arrivare a un’unità organica tra musica, arte e architettura. Lo sfondo sarà sempre lo stesso, quello del teatro. Spero così di creare un duplice effetto: mostrare al mondo questo luogo meraviglioso e allo stesso tempo portare il pubblico a concentrarsi maggiormente sulla musica».
È una liberazione non doversi occupare troppo della scenografia?
«Per me è un modo stimolante di mettere in scena un’opera. Voglio che tutto sia di altissimo livello, dai cantanti ai musicisti, ai costumi, perché questo teatro lo merita».
Come ha scelto il programma?
«Cominciamo con Falstaff perché già dall’inizio vorrei mandare un messaggio chiaro, ovvero che qui si possono mettere in scena opere di tutte le epoche. Monteverdi sarebbe stata una scelta più scontata. Partiamo con un’opera sola, spero già nel secondo anno di salire a due».
È difficile in un momento in cui i finanziamenti alle arti sono sempre più in bilico inventarsi un festival lirico?
«Il progetto è nato da un sogno e forse sono troppo idealista, ma credo che l’idea sia buona, che il posto meriti un festival internazionale. Dunque partiamo. Prima il prodotto, poi i soldi. Credo che troveremo gente che vorrà aiutarci. È un rischio. O un’avventura, dipende dai punti di vista».
Ci sono tanti teatri meravigliosi al mondo, perché ha scelto l’Italia?
«L’Italia ha una lunghissima tradizione lirica, ha teatri fantastici dove forse, in alcuni casi, si potrebbe fare di più. E ha un pubblico che adora l’opera, ragione per cui riserveremo molti biglietti agli abitanti della zona. Voglio che al festival partecipi il pubblico internazionale, ma anche la gente del posto».
Lei in pochi anni ha creato un’orchestra che oggi è regolarmente votata tra le prime dieci al mondo. Qual è il segreto?
«È cominciato tutto trent’anni fa, volevo un gruppo di musicisti uniti da devozione e serietà. Il successo ha sorpreso me per primo, nel senso che non credevo che il mio piccolo esperimento sarebbe stato accolto con tanto entusiasmo. Adesso siamo nella terza fase, quella in cui vogliamo usare il nostro lavoro per fare del bene. Non siamo in concorrenza con gli altri. Non vogliamo essere i migliori al mondo. Vogliamo solo contribuire».
In che modo?
«Per sopravvivere un’orchestra sinfonica deve essere in grado di ascoltare la comunità. Noi, per esempio, dedichiamo diverse settimane all’anno a progetti che ci portano in mezzo alla gente: sono iniziative che fanno bene a tutti, musicisti e pubblico».
Tra questi c’è anche il suo progetto nelle sinagoghe ungheresi.
«L’Olocausto in Ungheria ha causato circa mezzo milione di vittime, intere comunità sono scomparse, soprattutto nelle campagne. Oggi in tante località esistono le sinagoghe ma non gli ebrei, questi edifici rimangono chiusi, la gente ci passa davanti ogni giorno ma non ci è mai entrata. Noi andiamo a suonare proprio lì, nelle sinagoghe, per riportare in questi luoghi un po’ di vita e soprattutto un senso di continuità e di appartenenza. Le gente viene, perché una sinagoga dovrebbe essere prima di tutto un luogo di incontro».
Strategie «L’idea è di arrivare a un’unità organica tra musica, arte e architettura. Partiamo con “Falstaff”, voglio che tutto sia di altissimo livello»