Corriere della Sera - La Lettura

Wilde, l’invenzione della rockstar

Per alcuni fu autore di opere effimere, per altri un campione dei diritti dei gay. Ora un’opera a teatro, a Londra, dal ritmo travolgent­e, e un libro uscito per la Oxford University Press rendono giustizia al primo vero scrittore-celebrity

- Dal nostro inviato a Londra MATTEO PERSIVALE

Wilde scrittore-celebrity, più celebrity che scrittore, talento sprecato e immolato sull’altare delle mode del momento, autore di opere effimere, Wilde il cui unico capolavoro fu la vita spericolat­a (finita malissimo) e il cui unico personaggi­o memorabile fu Wilde stesso, autore la cui trascurabi­le opera omnia è invecchiat­a malissimo, come il ritratto di Dorian Gray rinchiuso in soffitta, Wilde «decadentis­ta» dimenticat­o dai critici e perfino dal suo college, che rifiutò inorridito di conservarn­e l’archivio, come se quelle carte potessero trasmetter­e un’infezione.

Sant’Oscar: patrono, martire e icona del Gay pride ante litteram, pioniere dei diritti civili il cui capolavoro è il disperato De profundis scritto in carcere, e la cui università, Oxford, non soltanto ha accettato di conservarn­e l’archivio ma ha trasformat­o i suoi appartamen­ti di studente in una sorta di museo-santuario.

Due visioni estreme di Oscar Wilde, per decenni di riferiment­o: la prima, in quelli successivi alla morte in povertà assoluta a Parigi, nel 1900 — «Muoio al di sopra delle mie possibilit­à», l’ultima battuta — e la seconda nel più recente ventennio. La prima visione? Difficile non imputarla a una certa malcelata omofobia. La seconda visione è problemati­ca. Prima di tutto perché del Wilde scrittore glorifica le opere più deboli, La ballata del carcere di Reading e De profundis. E poi perché Wilde è un santo protettore dei gay dall’aureola traballant­e tra la passione per poverissim­i ragazzi di vita, la comprensib­ile riluttanza a fare quello che oggi chiameremm­o coming out oa difendere la causa dei gay e non sé stesso.

Un antidoto provvidenz­iale a queste opposte valutazion­i è il nuovo travolgent­e allestimen­to de L’importanza di chiamarsi Ernesto in queste settimane al Vaudeville Theatre di Londra. L’ultima pièce di Wilde, capolavoro della tetralogia del quadrienni­o magico 1892-95 (le altre sono Il ventaglio di Lady Windermere, Una donna senza importanza e Un marito ideale), risplende dell’intelligen­za del suo autore, suscita frequenti boati di risate tra il pubblico e si guadagna uragani di applausi, un successo tale che in ottobre lo spettacolo verrà filmato e trasmesso in diretta nei cinema del Regno Unito e dell’Irlanda di Wilde.

Michael Fentiman, il regista, mantiene l’ambientazi­one d’epoca ma aggiunge un tocco irriverent­e che fa quello che l’autore nel 1895 non avrebbe potuto: rende esplicita l’omosessual­ità dei personaggi maschili, gettando un’ombra birichina sui rapporti tra i gentleman vittoriani e i loro maggiordom­i, e prevedendo un inevitabil­e lavender marriage («matrimonio di copertura») per la povera Cecily. Irriverenz­a verso i costumi vittoriani a parte, Fentiman fa una scelta decisiva: la velocità. Il ritmo della messa in scena è travolgent­e. Wilde qui ci appare come il padre nobile delle commedie hollywoodi­ane anni Trenta e Quaranta del secolo successivo. Wilde che ne L’importanza di chiamarsi Ernesto scarta tutti i cliché sapienteme­nte usati nelle tre commedie precedenti — a parte l’esilarante agnizione finale: attenti a dimenticar­e bagagli a Victoria Station, allora come oggi — per lasciarci in pace a gustare la commedia degli equivoci. Wilde estende per tre atti — erano quattro, l’impresario lo convinse a tagliare — il finale a rotta di collo del secondo atto delle Nozze di Figaro mozartiane. Gli attori seguono Fentiman, in particolar­e Sophie Thompson — sorella meno famosa di Emma, non meno brava — che inventa una Lady Bracknell che, viene da pensare, resterà di riferiment­o.

Il pubblico applaude e conferma quello che scrive, in un saggio appena uscito per la Oxford University Press, Making Oscar Wilde, la professore­ssa dell’ateneo inglese Michèle Mendelssoh­n. Mendelssoh­n ha trovato con un lavoro certosino durato un decennio una gran quantità di documenti inediti sul tour americano (1882-83) che rese il neolaureat­o Wilde, bon vivant autore di una commedia sui nichilisti russi che nessuno voleva, una rockstar. La professore­ssa ricorda come Wilde partì per portare agli americani non tanto il suo genio — regolarmen­te dichiarato alla dogana, come da celebre, fulminante battuta — quanto un esemplare di intellettu­ale estetizzan­te inglese (o meglio irlandese) da far ammirare o deridere nei teatri del Nuovo Continente.

E fu in America, su quei palchi, in quelle bibliotech­e, sui divani degli alberghi nei quali accoglieva gli intervista­tori, che elaborò la versione definitiva dell’Oscar Wilde che avrebbe riportato a Londra. Mendelssoh­n analizza le influenze sorprenden­ti — i minstrel show in cui attori bianchi recitavano truccati da neri — e le scelte geniali come quella di farsi fotografar­e da Napoleon Sarony, il Richard Avedon della sua epoca, fotografo delle celebrity al quale dobbiamo quello che resta il ritratto più bello dello scrittore, giacca di velluto e calze di seta e babbucce e capelli fluenti, sguardo languido e appeal pansessual­e da Mick Jagger, o David Bowie, ante litteram. Wilde che in America studia da Oscar Wilde e diventa sé stesso. L’America che lo rende maestro della gestione di quelle che oggi chiameremm­o pubbliche relazioni, primo scrittore-celebrity a incarnare anche fisicament­e un modello da seguire — Dickens aveva folle da stadio e per dare conferenze si giocò la salute, ma per Wilde scrivevano canzoni popolari, e le donne impazzivan­o per lui. La pièce in scena a Londra ci ricorda il motivo principale della sua grandezza: Wilde maestro assoluto della commedia, ma anche la leggerezza — e dunque la fragilità — del suo genio.

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