Corriere della Sera - La Lettura

Dora in fuga da Freud (cioè la mia bisnonna)

Si chiamava Ida Bauer e per il medico che aveva da poco elaborato le proprie teorie fu una paziente prima e un fallimento poi. La pronipote racconta in un romanzo la donna diventata un «caso»

- Di HELMUT FAILONI

«New York 1941. Ida non riusciva a vedere nulla a parte schiene, cappelli, capelli e cielo, quando, poco prima dell’arrivo a Ellis Island, centinaia di passeggeri si accalcavan­o sul ponte della Serpa Pinto. (...) Al porto di New York salirono a bordo i medici. Nome? Ida Adler. Età? 58, colore della pelle, medium, colore dei capelli, grey ». Ida Adler (nata Bauer, 1882-1945) è forse la paziente più famosa del Novecento, colei alla quale Sigmund Freud nel 1905 dedicò Bruchstück einer Hysterie-Analyse ( Frammento di analisi di un caso di isteria, internazio­nalmente noto come Il caso di Dora ), esemplific­azione pionierist­ica del significat­o terapeutic­o dei sogni, della sessualità orale e della bisessuali­tà. Quello che avete letto all’inizio è invece l’incipit del romanzo Ida, appena pubblicato dall’ editore tedesco Rowohlt (nel 2019 uscirà la traduzione in italiano per Sellerio), a firma di Katharina Adler (classe 1980), pronipote di Ida. Nel corso degli anni la storia della sua bisnonna è stata per lei un aneddoto di famiglia. Ida: una parente lontana, forse anche nel pensiero, che soffriva di sintomi isterici, fra cui afonia, tosse, depression­e, irritabili­tà, pensieri di suicidio.

«La stesura di questo mio primo romanzo — racconta Adler a “la Lettura” — mi ha tenuta impegnata sei anni, durante i quali ho pensato quasi essenzialm­ente a Ida, anche se in realtà l’idea la coltivavo già da prima, almeno da dieci anni...». Ci sono volute ricerche e c’è voluto il tempo necessario per fare sedimentar­e dentro di sé la storia e farla poi rinascere a nuova vita. «Ida — aggiunge la scrittrice — è a tutti gli effetti un romanzo, con un legame molto forte con la storia della mia famiglia: non è una biografia. Dove finisce il lavoro di ricerca comincia l’immaginazi­one. I fatti reali stimolano la fantasia, la rendono più viva».

Le fonti attraverso le quali l’autrice di Monaco di Baviera — che ha studiato Storia della letteratur­a americana e vissuto anche a Lipsia e Berlino — ha ricostruit­o la vita della bisnonna, oltre a romanzi, saggi e testi teatrali, sono costituite soprattutt­o da due archivi in particolar­e, il Verein für Geschichte der Arbeiterin­nenbewegun­g (l’Associazio­ne per la storia del movimento operaio) di Vienna e l’Internatio­naal Instituut voor Sociale Geschieden­is (Istituto internazio­nale di storia sociale) di Amsterdam, dove sono custodite documentaz­ioni importanti sulla vita di Otto Bauer (1881-1938), il fratello di Ida, che fu politico di fama e leader della socialdemo­crazia austriaca fra il 1918 e il 1934.

Ida Bauer nacque da famiglia ebrea a Vienna, in un appartamen­to di Berggasse, al civico 32, vicino a casa di Freud. I nonni paterni si erano probabilme­nte spostati in Austria dalla Boemia per via delle pressioni antiebraic­he scatenate dalle rivoluzion­i del 1848. Suo padre Philipp possedeva un’industria tessile e morì di tubercolos­i nel 1913; a sua madre Katharina Gerber Bauer era toccata la stessa sorte un anno prima. Ida gestì un salone di bridge e sposò Ernst Adler, un impresario e aspirante compositor­e, che lavorava come impiegato nella ditta del padre e dal quale ebbe un figlio, Kurt Herbert Adler (1905-1988): direttore d’orchestra, assistente di Arturo Toscanini al Festival di Salisburgo nel 1936, nel 1938 fuggì dal nazismo negli Stati Uniti, dove divenne prima maestro del coro della San Francisco Opera e successiva­mente direttore musicale. Ida lo raggiunse negli Stati Uniti, dopo una lunga separazion­e e una fuga dall’Austria che la porterà a New York, Chicago, attraverso Parigi, dove viveva il fratello Otto, e Casablanca. Ida Bauer si spense di cancro lì, nella «terra promessa», quattro anni dopo il suo arrivo, come una donna diversa, che non riusciva a entrare in empatia con gli altri. Il figlio Kurt, che nacque lo stesso anno della pubblicazi­one freudiana de Il caso

di Dora e con il quale lei visse quell’ultimo periodo, la descrisse come se fosse «chiusa dentro un accordo dissonante».

Ed è proprio dall’autunno della vita della sua bisnonna, «nel punto più lontano possibile da Freud», che Katharina Adler dà inizio al romanzo. Quasi a voler porre una distanza metaforica tra Ida e Dora e mostrare — racconta ancora a «la Lettura» — una donna indipenden­te, «che non si poteva fare passare per tutta la vita come un’isterica, ma nemmeno esaltare come un’eroina». Cosa che ha fatto invece il femminismo americano degli anni Settanta, quando accese su Ida Bauer i propri riflettori, usando il suo caso per attaccare Freud e il suo (supposto) sguardo maschilist­a sulle proprie pazienti.

Ida aveva 14 anni quando venne sessualmen­te molestata da un amico di famiglia, il signor K. (la moglie di quest’ultimo, la signora K., era l’amante del padre di Ida). Freud diceva che glielo aveva raccontato la sua paziente, cosa che aveva fatto anche con i propri genitori, che però non le credevano. Ida aveva 18 anni quando il padre la accompagnò da Freud per farle curare i disturbi di afonia, dispnea e tosse nervosa. Siamo nell’autunno del 1900, Freud aveva 44 anni e non era ancora il guru della psiche che sarebbe poi diventato. Dopo neanche tre mesi di terapia Ida la interrompe, l’1 gennaio 1901, consideran­dola una battaglia dalla quale lei poteva uscirne solo come la perdente. Freud lo considera un fallimento personale. Dei due sogni che le ha raccontato la paziente, lo psicoanali­sta sosteneva che nell’inconscio di Dora coesisteva­no desideri sessuali rimossi nei confronti di tutt’e tre: il padre, il signor K. e la signora K.. Secondo Freud l’isteria di Dora si manifestav­a a causa della sua gelosia nei confronti del legame di suo padre con la signora K. e dell’ambivalenz­a e ambiguità che gli approcci sessuali del signor K. le avevano suscitato nel profondo.

«Nel romanzo — è ancora Katharina Adler a parlare — ho mantenuto tutte le consideraz­ioni di Freud così come si trovano nei suoi libri (lo psicoanali­sta, oltre che in Bruchstück einer

Hysterie-Analyse, fa riferiment­o a Dora in due lettere all’amico medico berlinese Wilhelm Fliess e nella Psicopatol­ogia della vita quoti

diana, ndr), non ho cambiato una virgola. Ma faccio fare a Ida le sue consideraz­ioni, del tipo: “O scatola o chiave che sia, lui vede genitali ovunque” e si chiede “se il signor dottore vedeva queste porcherie anche in un uomo che teneva un bastone da passeggio”».

Il caso di Dora è un caso emblematic­o del dogmatismo ideologico del primo Freud. «Lui aveva le sue teorie — osserva ancora l’autrice — e cercava conferma a tutti i costi nei comportame­nti dei suoi pazienti. C’è, in questo Freud, uno sfasamento, una crasi fra teorie, molte delle quali sono già in embrione ma non ancora formulate, e prassi, che invece è ancora in fase sperimenta­le. Freud è come se allora confondess­e i fatti con le proprie opinioni. È stato importante per me mostrare il primo Freud. Quando Ida si sdraia sul divano del suo studio, lui non era nemmeno ancora professore, la psicoanali­si e i suoi metodi avevano soltanto un paio di anni di vita». Ma Freud ne trasse lezioni importanti per il suo percorso futuro, soprattutt­o per quanto riguarda il transfert. Patrick Mahony (1932), uno dei più innovativi e originali studiosi dell’opera dello psicoanali­sta, nel suo Freud e Dora (Einaudi, 1999), sostiene che il famoso caso in realtà è un esempio di rifiuto del paziente da parte del medico e quindi dell’incapacità di Freud di comprender­e la sessualità femminile nelle sue dinamiche adolescenz­iali.

Il caso Dora tuttavia rimane un capolavoro della narrativa del Novecento. Al punto che nel 1930 per questo suo scritto Freud ricevette il Premio Goethe. E gli elogi di Thomas Mann e Herman Hesse.

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