Corriere della Sera - La Lettura

L’antifascis­mo non capì l’Italia delle leggi razziali

- di ALESSANDRA TARQUINI

Nel settembre del 1938, quando il regime fascista adottò le leggi razziali che trasformar­ono la vita dei cinquantam­ila ebrei italiani, nessuno prese le loro difese. Dalla Santa Sede, «L’Osservator­e Romano» protestò perché venivano vietati i matrimoni misti, ma autorevoli intellettu­ali e noti politici si guardarono bene dal criticare pubblicame­nte i provvedime­nti antiebraic­i. È vero che in uno Stato totalitari­o il pluralismo delle opinioni politiche è perseguito legalmente, e che se qualcuno fosse stato contrario avrebbe avuto non pochi problemi a esprimere il proprio punto di vista. Ma come spiegare la reazione della sinistra antifascis­ta che, salvo rare eccezioni, non si interrogò sulle cause e sulla natura della legislazio­ne razziale? Da una ricognizio­ne quantitati­va risulta che nel periodo 1897-1921, i giornali della sinistra pubblicaro­no circa seicento articoli sull’ antisemiti­smo europeo, mentre negli anni 1922-1943, sugli stessi periodici, non si trovano più di trecento contributi. Nel momento in cui la violenza contro gli ebrei divenne un fatto politico di rilevanza nazionale e internazio­nale, con l’avvento di Adolf Hitler al potere e l’adozione in Italia di provvedime­nti antiebraic­i, l’antifascis­mo non le riconobbe l’attenzione che ci si potrebbe aspettare.

La prima ragione risiede nella trasformaz­ione della società italiana in uno Stato totalitari­o a partito unico. Alla fine del 1926 quasi tutti i dirigenti della sinistra eran ostati arrestati e condannati a molti annidi reclusione. Chi era riuscito a fuggire affrontava la realtà dell’esilio, della solitudine e della sconfitta, disponendo di poche informazio­ni, perlopiù ricavate dalla stampa di regime. Impegnati in una battaglia perla propria sopravvive­nza, braccati da una rete capillare di informator­i, gli antifascis­ti non sentivano come prioritari­o il temadell’ antisemiti­smo. È comprensib­ile immaginand­o la vita di uomini sconfitti, lontani dal loro Paese e dalle loro famiglie. D’altra parte, la realtà della clandestin­ità non è sufficient­e a spiegare la sottovalut­azione del problema, che dipese per un verso dalla cultura politica della sinistra, per un altro da una particolar­e interpreta­zione della storia d’Italia.

Come emerge dalle pagine de «Lo Stato Operaio» (la rivista fondata dal leader comunista Palmiro Togliatti nel 1927) dell’estate del 1938, per i marxisti italiani «la lotta antisemita» costituiva un «tentativo grossolano di far divergere le preoccupaz­ioni crescenti e il malcontent­o delle masse popolari» «verso l’obiettivo di una lotta contro gli ebrei», un fatto «sovrastrut­turale». Era, dunque, un aspetto della lotta di classe, uno strumento utilizzato dalla borghesia per esercitare la propria egemonia sulle classi subalterne.

All’interno di questo orizzonte ideologico, nessuno si chiese perché proprio gli ebrei fossero oggetto di una persecuzio­ne che non aveva precedenti nella storia dell’Italia unita. Addirittur­a sull’«Avanti!» socialista un anonimo collaborat­ore si fece sfuggire uno stereotipo antisemita e nel luglio del 1938 scrisse che gli ebrei erano pericolosi due volte: come «capitalist­i» e come «fascisti» — proprio in quanto «capitalist­i», erano stati «fascisti entusiasti fin dall’inizio». Del resto, il fatto che la svolta antisemita avesse messo in allarme i Paesi «democratic­i», rimasti «insensibil­i alle persecuzio­ni dei proletari italiani», che fosse scattata un’immediata «so- lidarietà di classe», collocava gli ebrei sul fronte opposto a quello del proletaria­to.

Accanto alle difficoltà del marxismo di immaginare altra forma di violenza al di fuori di quella di classe, c’era poi una consideraz­ione più generale: per la sinistra antifascis­ta le masse proletarie non erano antisemite e tanto meno fasciste. Si trattava di una delle versioni del mito del «bravo italiano», per cui ad essere razzisti erano sì i fascisti ma non gli italiani. Nel dicembre 1938 Angelica Balabanoff, la segretaria del Partito socialista massimalis­ta, quello più vicino alle posizioni dei comunisti e della Terza Internazio­nale, si diceva convinta che l’antisemiti­smo non avrebbe trovato terreno fertile in Italia, sia per l’esiguità della comunità ebraica sia perché «incompatib­ile con il carattere e la mentalità» del Paese.

In realtà, nel mondo della sinistra, solo Giustizia e Libertà, il piccolo movimento fondato nel 1929 da Carlo Rosselli, a cui aderirono molti intellettu­ali ebrei, e il Partito socialista riformista, che dal 1930 era guidato da Pietro Nenni, dedicarono attenzione al razzismo antisemita con una certa costanza.

Il primo si occupò della legislazio­ne antiebraic­a in ogni numero della rivista omonima del suo movimento seguendo i molteplici aspetti della svolta razziale del 1938. Il secondo sul «Nuovo Avanti!» sottolineò come i provvedime­nti antiebraic­i determinas­sero la rottura del principio di eguaglianz­a dei cittadini. Cominciata con gli antifascis­ti, l’esclusione dei «reprobi» dal corpo «sano» della nazione si estendeva agli ebrei e minacciava di colpire altri gruppi di italiani, mostrando la potenza del regime totalitari­o. Nessun diversivo per la classe operaia, nessuna realtà sovrastrut­turale: l’antisemiti­smo di Stato seguiva lo «sterminio di diecine di migliaia di abissini» e derivava dalla volontà di Mussolini di eliminare gli ebrei.

Tuttavia, nel domandarsi quali fossero le cause e la natura di questo fenomeno, inedito in un Paese che non aveva un passato antisemita paragonabi­le a quello di altre nazioni europee, anche se l’antisemiti­smo di matrice cattolica era sempre esistito, gli stessi oppositori riformisti del fascismo restarono all’interno della tradizione politica di cui erano i rappresent­anti. Proponendo un’interpreta­zione che avrebbe avuto ampia fortuna nel dopoguerra, quella secondo cui il regime non aveva prodotto una sua cultura, gli esponenti della sinistra riformista leggevano le persecuzio­ni antiebraic­he come una delle espression­i della barbarie fascista, senza interrogar­si sulla sua specificit­à.

Da parte sua, Carlo Rosselli era convinto che il fascismo esprimesse i vizi profondi, le debolezze latenti, le miserie del popolo italiano. A suo avviso, ma su questo l’accordo con il mondo della sinistra non comunista era totale, si trattava di un fenomeno regressivo: la prova dell’incapacità degli italiani di diventare moderni, l’esito di uno sviluppo economico e politico diverso da quello degli altri Paesi europei, il prodotto di un’Italia retorica, cattolica, arretrata, illiberale e piccolo borghese. E come sul fascismo non vi era molto da dire, anche sull’antisemiti­smo non vi fu dibattito: per i collaborat­ori di «Giustizia e Libertà», le leggi del 1938 costituiva­no una conferma del carattere violento del regime che imponeva il proprio dominio sugli italiani con il terrore, e che, quindi, era meritevole di condanna e disprezzo, ma non di analisi approfondi­te.

Nessuno allora sostenne che l’Italia fosse un Paese razzista e antisemita; che il fascismo non fosse un fenomeno politico barbaro e reazionari­o, ma un esperiment­o moderno e totalitari­o; che moderna fosse la persecuzio­ne degli ebrei, pericolosi perché considerat­i nemici della nazione, diversi da quell’italiano nuovo voluto dal regime mussolinia­no, impegnato in una rivoluzion­e antropolog­ica. Nel confinare l’antisemiti­smo di Stato alla classe dirigente, e nell’immaginare gli italiani brava gente, immune dal contagio razzista, la sinistra descrisse un Paese che, di fatto, non esisteva.

All’indomani della Seconda guerra mondiale, e per i successivi quindici anni, sulle persecuzio­ni antisemite cadde il silenzio. O meglio, il silenzio proseguì da quel settembre del 1938 che cambiò la vita di cinquantam­ila nostri concittadi­ni.

I comunisti e i socialisti di sinistra liquidaron­o le misure antisemite come un tentativo di deviare l’attenzione degli operai dai conflitti di classe. Ma anche coloro che videro la gravità della svolta, come Nenni e Rosselli, si limitarono a denunciare la barbarie di Mussolini assolvendo il popolo. Fuorviati dal mito della «brava gente», non colsero la modernità di una politica totalitari­a efficace e coerente

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